giovedì, aprile 06, 2006
LA FASE DEL CENTRISMO IN ITALIA
EDITORIALE
Finita una rapida panoramica degli eventi internazionali che vanno fino alla metà degli anni ’60, è tempo di tornare in Italia. Dopo avere affrontato i primi anni del dopoguerra italiano, l’emergenza economica e le scelte di politica internazionale, veniamo ora ad una serie di articoli che presenteranno la dialettica politica nazionale, con il suo variegato panorama e le diverse alleanze che ci condurranno fino ai primi governi di centro-sinistra nei primi anni ’60.
I FATTI
Dopo le elezioni per la Costituente e il referendum monarchia o repubblica (svoltisi contemporaneamente il 2 giugno 1946) democristiani, socialisti e comunisti si accordarono sull’elezione del primo e provvisorio presidente della repubblica il giurista liberale Enrico De Nicola e diedero vita ad un secondo governo De Gasperi.
Nel dicembre 1946 nasce il Movimento Sociale Italiano (Msi) guidato da G. Almirante. Il partito raccoglie i fascisti dispersi dopo la liberazione e si richiama al fascismo sociale della Repubblica di Salò.
Nel gennaio del 1947 il partito socialista (Psiup) in occasione del suo XXV congresso vede la scissione da parte del gruppo di Giuseppe Saragat, che, su posizioni anti sovietiche diametralmente opposte a quelle di Nenni, fonda il Partito Socialista dei Lavoratori Italiani (Psli) che, qualche anno più tardi, avrebbe assunto il nome di Partito Socialdemocratico Italiano (Psdi). La restante parte del Psiup capeggiata da Nenni riassume il vecchio nome di Partito Socialista Italiano (Psi).
Il ritiro dei rappresentanti del Psli dal governo provoca una crisi che porta De Gasperi, il 2 febbraio 1947, a formare il suo terzo ministero con socialisti e comunisti. Di ritorno dal viaggio negli Stati Uniti, De Gasperi presenta le dimissioni del suo terzo governo e il 24 maggio 1947 forma il suo quarto ministero costituito da democristiani e alcune eminenti personalità (Sforza, Merzagora, Einaudi). Con l’esclusione di comunisti e socialisti si spezza l’unità delle forze antifasciste. La politica economica del governo, tracciata da Einaudi, ministro del bilancio, segue un orientamento liberista e affida i compiti della ricostruzione all’iniziativa privata.
Il 18 aprile 1948 si tengono le prime elezioni del nuovo Parlamento Italiano, dopo l’entrata in vigore della Costituzione. I democristiani ottengono la maggioranza assoluta (306 deputati su 574). De Gasperi forma con liberali, socialisti democratici e repubblicani il suo quinto governo (quadripartito).
Sempre nel 1948 i sindacalisti cattolici provocano una scissione nella CGIL (nata il 3 giugno 1944 con il “patto di Roma” tra il comunista Di Vittorio, il cattolico Grandi e il socialista Canevari) e fondano un sindacato indipendente con il nome di Libera CGIL.
Nel 1949 i sindacalisti di ispirazione repubblicana e socialdemocratica provocano una nuova scissione nella CGIL e danno vita alla federazione italiana del lavoro (FIL). Nel 1950 il sindacato Libera CGIL si fonde con una parte della FIL, dando vita alla confederazione Italiana Sindacati Lavoratori (CISL). La frazione restante della FIL assume il nome di Unione Italiana del Lavoro (UIL).
Nel luglio del 1949 il Santo Uffizio scomunica tutti i cattolici che accettano o sostengono la dottrina comunista.
IL CONTESTO
Il ritorno alla dialettica democratica dopo la parentesi del fascismo si era accompagnato a un’impetuosa crescita della partecipazione politica rispetto al periodo prebellico. Gli iscritti ai partiti più forti si misuravano ormai in centinaia di migliaia. Era dunque convinzione comune che il dopoguerra avrebbe visto in primo piano i partiti organizzati su basi di massa, soprattutto quelli della sinistra operaia, anche tramite le organizzazioni sindacali.
In particolare il partito socialista pareva destinato ad assumere un ruolo di protagonista grazie anche alla popolarità del suo leader Pietro Nenni. Il gruppo dirigente, però, appariva diviso fra le spinte rivoluzionarie e il richiamo alla tradizione riformista.
Il partito comunista traeva forza e credibilità dal contributo offerto alla lotta antifascista. Era diventato un autentico partito di massa, ben diverso dal piccolo e intransigente partito leninista fondato a Livorno nel 1921, che tendeva ad allargare la sua base di consenso oltre la tradizionale base operaia verso i contadini, i ceti medi e soprattutto gli intellettuali.
L’unico altro partito capace di competere sull’organizzazione di massa con comunisti e socialisti era la Democrazia Cristiana, che si richiamava direttamente all’esperienza del partito Popolare di Sturzo di cui ne ricalcava il programma, ispirato alla dottrina sociale cattolica e dunque avverso alla lotta di classe, rispettoso del diritto di proprietà, ma aperto alle istanze di riforma.
Il Partito Liberale, che raccoglieva fra le sue file gran parte della classe dirigente prefascista, poteva contare su una serie di adesioni illustri (Einaudi e Croce), oltre che sul sostegno dell’industria e dei proprietari terrieri. Ma il rapporto tra i leader e la base elettorale – di tipo personale e clientelare – era ormai definitivamente compromesso.
Fra i partiti laici, il partito repubblicano si distingueva per l’intransigenza sulla questione istituzionale e aveva infatti respinto ogni compromesso con la monarchia, rifiutando persino di partecipare al CLN.
In una posizione particolare si collocava il Partito d’Azione (PDA). Forte del prestigio che gli veniva dall’adesione di molti leader dell’antifascismo (Parri, Lussu, Valiani) il PDA si presentava come una forza nuova e moderna e si faceva promotore di ampie riforme sociali e istituzionali. Il partito era però privo di una base di massa e faticava a trovare una sua identità, diviso com’era fra un’ala socialista e un’ala liberal democratica, un contrasto che lo avrebbe portato di lì a poco ad una scissione (febbraio 1946) e al successivo scioglimento.
Quanto alla destra, essa appariva politicamente fuori gioco nel clima dopo-liberazione, ma era ancora forte, soprattutto nel mezzogiorno e tendeva a diventarlo sempre più con l’accentuarsi delle insofferenze nei confronti del nuovo assetto politico. I gruppi di destra andarono in parte ad ingrossare le file della DC e del PLI, in parte si raccolsero sotto le bandiere monarchiche e in parte contribuirono all’affermazione, clamorosa ma effimera, del movimento dell’Uomo Qualunque (fondato nel novembre del 1945 dal commediografo Guglielmo Giannini), che però già nel 1947 si era praticamente dissolto, soprattutto per la confluenza dell’opinione pubblica moderata attorno alla DC.
Per quanto riguarda gli orientamenti dei gruppi sociali, una prima riflessione va fatta sul mondo contadino che era entrata in contatto durante la Resistenza con le brigate partigiane. Il risentimento verso l’invasore tedesco per i danni alle coltivazioni, le ruberie e i soprusi avevano creato questa sorta di alleanza che si sviluppò ulteriormente quando i partiti della sinistra, e in particolare il PCI, si erano fatti carico dei problemi delle diverse categorie contadine; sono infatti gli antifascisti a dirigere e organizzare le grandi lotte dell’estate 1944 per impedire la mietitura e la trebbiatura e sono gli stessi CLN a intervenire nelle zone a più forte presenza partigiana nelle vertenze mezzadrili e bracciantili per imporre nuovi contratti di lavoro.
Di contro la proprietà agraria aveva perso i suoi punti di riferimento politico anche per la sua perdita di potere economico che si era spostato verso le grandi industrie del nord. Il nuovo accordo nel blocco dominante tra industriali del nord e alti burocrati dello Stato relega gli antichi partner agrari in posizione marginale. A tagliare la strada alle forze della reazione agraria, nelle diverse fasi del suo progetto restauratore-autoritario, sta la DC, che si sente minacciata nella sua strategia politica da un’affermazione della destra di tale portata da diventare condizionante nel governo del Paese. L’alleanza della DC con le sinistre fino al 1947 è, da questo punto di vista, funzionale al contenimento della pressione dello schieramento ultraconservatore. Solo dopo la grande vittoria del 1948 la DC si sentirà abbastanza sicura da gestire in proprio questa partita, essendosi preventivamente assicurata l’adesione di vaste fasce moderate e le simpatie di non pochi settori della stessa destra, illusi che la battaglia anticomunista ingaggiata dai cattolici prefiguri l’inserimento della DC nel blocco reazionario.
ATTUALITÀ
Le scadenze elettorali del 2006
Da aprile a giugno gli elettori, sia i singoli cittadini che i rappresentanti del Parlamento appena eletti, si troveranno ad affrontare una serie di scadenze elettorali.
ELEZIONI POLITICHE
Domenica 9 aprile, dalle ore 8 alle ore 22, e lunedi’ 10 aprile, dalle ore 7 alle ore 15, si svolgeranno le operazioni di voto per il rinnovo del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati (XV legislatura).
Le operazioni di scrutinio avranno inizio lunedi’ 10 aprile cominciando dallo spoglio delle schede per l’elezione del Senato.
La nuova legge elettorale
La nuova legge elettorale (approvata il 21 dicembre 2005) ha introdotto un sistema proporzionale con premio di maggioranza e soglie di sbarramento.
Per l’elezione della Camera possono votare i maggiorenni aventi diritto al voto, mentre per l’elezione del Senato possono votare coloro che, alla data del 9 aprile, hanno compiuto il venticinquesimo anno di età.
Sia per l’elezione della Camera (scheda rosa) sia per l’elezione del Senato (scheda gialla), l’elettore esprime il voto tracciando con la matita un solo segno (esempio, una croce o una barra) nel riquadro che contiene il contrassegno della lista prescelta.
E’ vietato scrivere sulla scheda il nominativo dei candidati e qualsiasi altra indicazione.
Con la nuova legge elettorale non si possono dare voti di preferenza. Le liste sono «bloccate» quindi sono automaticamente eletti i candidati che si trovano nelle prime posizioni della lista tanti quanti sono i seggi assegnati a quella lista. Ossia, se a una lista vengono assegnati dieci seggi, sono eletti i primi dieci candidati che compaiono in quella lista. Il voto di preferenza a un candidato rischia di portare all’annullamento della scheda.
Il 9 e 10 aprile si torna a votare per la prima volta dal 1992 con il sistema proporzionale, ma con alcune differenze. Rispetto al sistema maggioritario (con il quale si è votato nel 1994, nel 1996 e nel 2001), in cui in ogni singolo collegio il candidato che otteneva più voti (anche un solo voto in più degli avversari) vinceva il collegio e quindi il seggio, con il sistema proporzionale ogni partito ottiene tanti deputati o senatori a seconda della percentuale ricevuta alle urne.
CAMERA DEI DEPUTATI
La nuova legge elettorale, per assicurare la governabilità e una maggioranza sicura in Parlamento, assegna un premio di maggioranza. Alla coalizione che ha ottenuto il maggior numero di voti vengono assegnati 340 seggi alla Camera dei deputati, anche se in realtà dalle urne ne risulterebbero di meno. Se invece già dalle urne ottiene un numero di seggi superiore a 340 (per esempio 352), alla coalizione vincente vengono assegnati quelli effettivamente ottenuti.
La nuova legge elettorale ha introdotto tre sbarramenti. Per partecipare all’assegna-zione dei seggi, ogni coalizione deve ottenere almeno il 10% dei voti validi su scala nazionale e deve includere almeno un partito che ha ottenuto almeno il 2% su scala nazionale oppure una lista di minoranze linguistiche che ha ottenuto almeno il 20% nelle regioni a statuto speciale in cui tali minoranze sono tutelate. Se un partito si presenta da solo senza far parte di una coalizione, per partecipare all’assegnazione dei seggi deve ottenere almeno il 4% su scala nazionale.
La Camera dei deputati è composta da 630 deputati eletti dal popolo. Di questi, dodici sono eletti nella circoscrizione estero, gli altri 618 in Italia.
SENATO DELLA REPUBBLICA
Escluse Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige e Molise, in ognuna delle restanti 17 regioni alla coalizione che ha ottenuto più voti viene assegnato il 55% dei senatori spettanti a quella regione (arrotondato al numero superiore). Se dalle urne la coalizione vincente ottiene più del 55%, le vengono assegnati i senatori corrispettivi alla percentuale ottenuta.
Per partecipare all’assegnazione dei seggi in ogni singola regione, le coalizioni devono ottenere almeno il 20% dei voti validi in quella regione e devono contenere almeno un partito che abbia ottenuto almeno il 3% dei voti sempre nella regione in esame. Se un partito si presenta da solo in una regione senza far parte di una coalizione, per partecipare all’assegnazione dei seggi di quella regione deve ottenere almeno l’8% nella regione in esame.
Il Senato della Repubblica è composto da 315 senatori eletti dal popolo. Di questi, sei sono eletti nella circoscrizione estero, gli altri 309 in Italia. Ai senatori eletti vanno aggiunti i senatori a vita: in questo momento sono sette, diventeranno otto quando in maggio Carlo Azeglio Ciampi non sarà più presidente della Repubblica (a meno che non venga rieletto). Quindi dalla fine di maggio i senatori saranno 323.
Possono essere eletti al Senato tutti i cittadini italiani in possesso dei diritti civili che hanno compiuto 40 anni di età entro il giorno delle elezioni.
ELEZIONE DEL NUOVO PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
Il Parlamento della XV legislatura si riunirà per la prima volta venerdì 28 aprile e ogni Camera dovrà eleggere il proprio presidente.
Nei primi giorni di maggio inizieranno le procedure per l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica, il cui mandato durerà sette anni.
ELEZIONI AMMINISTRATIVE (SINDACI)
Nei primi giorni di marzo sono state fissate le date per le elezioni amministrative.
(Le elezioni regionali, che si svolgono ogni cinque anni, si sono tenute nel 2005).
Questa scadenza viene a coincidere con le elezioni politiche perché con il Decreto Legislativo n. 267 del 18 agosto 2000 è stato deciso di prolungare a cinque anni (prima erano quattro) la durata del mandato dei sindaci.
Le elezioni amministrative si terranno il 28 e il 29 maggio 2006 per il rinnovo di 8 amministrazioni provinciali e di 1.267 amministrazioni comunali (tra cui Milano, Roma, Napoli e Torino).
Si voterà inoltre per le province di Mantova, Pavia, Treviso, Imperia, Ravenna, Lucca, Campobasso e Reggio Calabria.
In Friuli Venezia Giulia si voterà anche per il rinnovo degli organi di tre amministrazioni provinciali (Gorizia, Trieste e Udine).
In Sicilia per il rinnovo del consiglio regionale e per l´amministrazione di 13 comuni.
Per il secondo turno (cioè gli eventuali ballottaggi) delle amministrative si voterà l’11 e il 12 giugno.
REFERENDUM COSTITUZIONALE
Verso la fine di giugno (le decisioni della Corte di Cassazione sono attese per il 21 aprile) si voterà per abrogare o confermare la riforma costituzionale votata quest’anno a stretta maggioranza dal Parlamento.
Sarà il presidente della Repubblica a indire il referendum. Solo dopo il governo dovrà individuare «una data fra il 50mo e il 70mo giorno dalla data di indizione del referendum», quindi si voterà dopo il 10 giugno.
Il referendum sarà valido qualunque sarà il numero dei votanti in quanto per i referendum costituzionali non è previsto il quorum.
FONTI E APPROFONDIMENTI
La Storia, Grandi Opere di UTET Cultura, Vol. 22 “Dal centrismo all’esperienza del centro-sinistra”, La Repubblica, Roma, 2004
Il mondo contemporaneo dal 1848 a oggi di G. Sabbatucci e V. Vidotto, Bari, Laterza, 2005
La formazione dell’Italia democratica di Francesco Barbagallo, in “Storia dell’Italia repubblicana”, Vol. I, Torino, Einaudi , 1994.
L’Italia democratica. Profilo del primo cinquantennio di Nicola Tranfaglia, in “La storia – I grandi problemi dell’età contemporanea”, opera coordinata da N. Tranfaglia e M. Firpo, Vol. V, Garzanti, 2001, pp.79-120;
Per la parte di Attualità: http://www.interno.it/salastampa/comunicati/pages/articolo.php?idarticolo=1004 e www.corriere.it
Finita una rapida panoramica degli eventi internazionali che vanno fino alla metà degli anni ’60, è tempo di tornare in Italia. Dopo avere affrontato i primi anni del dopoguerra italiano, l’emergenza economica e le scelte di politica internazionale, veniamo ora ad una serie di articoli che presenteranno la dialettica politica nazionale, con il suo variegato panorama e le diverse alleanze che ci condurranno fino ai primi governi di centro-sinistra nei primi anni ’60.
I FATTI
Dopo le elezioni per la Costituente e il referendum monarchia o repubblica (svoltisi contemporaneamente il 2 giugno 1946) democristiani, socialisti e comunisti si accordarono sull’elezione del primo e provvisorio presidente della repubblica il giurista liberale Enrico De Nicola e diedero vita ad un secondo governo De Gasperi.
Nel dicembre 1946 nasce il Movimento Sociale Italiano (Msi) guidato da G. Almirante. Il partito raccoglie i fascisti dispersi dopo la liberazione e si richiama al fascismo sociale della Repubblica di Salò.
Nel gennaio del 1947 il partito socialista (Psiup) in occasione del suo XXV congresso vede la scissione da parte del gruppo di Giuseppe Saragat, che, su posizioni anti sovietiche diametralmente opposte a quelle di Nenni, fonda il Partito Socialista dei Lavoratori Italiani (Psli) che, qualche anno più tardi, avrebbe assunto il nome di Partito Socialdemocratico Italiano (Psdi). La restante parte del Psiup capeggiata da Nenni riassume il vecchio nome di Partito Socialista Italiano (Psi).
Il ritiro dei rappresentanti del Psli dal governo provoca una crisi che porta De Gasperi, il 2 febbraio 1947, a formare il suo terzo ministero con socialisti e comunisti. Di ritorno dal viaggio negli Stati Uniti, De Gasperi presenta le dimissioni del suo terzo governo e il 24 maggio 1947 forma il suo quarto ministero costituito da democristiani e alcune eminenti personalità (Sforza, Merzagora, Einaudi). Con l’esclusione di comunisti e socialisti si spezza l’unità delle forze antifasciste. La politica economica del governo, tracciata da Einaudi, ministro del bilancio, segue un orientamento liberista e affida i compiti della ricostruzione all’iniziativa privata.
Il 18 aprile 1948 si tengono le prime elezioni del nuovo Parlamento Italiano, dopo l’entrata in vigore della Costituzione. I democristiani ottengono la maggioranza assoluta (306 deputati su 574). De Gasperi forma con liberali, socialisti democratici e repubblicani il suo quinto governo (quadripartito).
Sempre nel 1948 i sindacalisti cattolici provocano una scissione nella CGIL (nata il 3 giugno 1944 con il “patto di Roma” tra il comunista Di Vittorio, il cattolico Grandi e il socialista Canevari) e fondano un sindacato indipendente con il nome di Libera CGIL.
Nel 1949 i sindacalisti di ispirazione repubblicana e socialdemocratica provocano una nuova scissione nella CGIL e danno vita alla federazione italiana del lavoro (FIL). Nel 1950 il sindacato Libera CGIL si fonde con una parte della FIL, dando vita alla confederazione Italiana Sindacati Lavoratori (CISL). La frazione restante della FIL assume il nome di Unione Italiana del Lavoro (UIL).
Nel luglio del 1949 il Santo Uffizio scomunica tutti i cattolici che accettano o sostengono la dottrina comunista.
IL CONTESTO
Il ritorno alla dialettica democratica dopo la parentesi del fascismo si era accompagnato a un’impetuosa crescita della partecipazione politica rispetto al periodo prebellico. Gli iscritti ai partiti più forti si misuravano ormai in centinaia di migliaia. Era dunque convinzione comune che il dopoguerra avrebbe visto in primo piano i partiti organizzati su basi di massa, soprattutto quelli della sinistra operaia, anche tramite le organizzazioni sindacali.
In particolare il partito socialista pareva destinato ad assumere un ruolo di protagonista grazie anche alla popolarità del suo leader Pietro Nenni. Il gruppo dirigente, però, appariva diviso fra le spinte rivoluzionarie e il richiamo alla tradizione riformista.
Il partito comunista traeva forza e credibilità dal contributo offerto alla lotta antifascista. Era diventato un autentico partito di massa, ben diverso dal piccolo e intransigente partito leninista fondato a Livorno nel 1921, che tendeva ad allargare la sua base di consenso oltre la tradizionale base operaia verso i contadini, i ceti medi e soprattutto gli intellettuali.
L’unico altro partito capace di competere sull’organizzazione di massa con comunisti e socialisti era la Democrazia Cristiana, che si richiamava direttamente all’esperienza del partito Popolare di Sturzo di cui ne ricalcava il programma, ispirato alla dottrina sociale cattolica e dunque avverso alla lotta di classe, rispettoso del diritto di proprietà, ma aperto alle istanze di riforma.
Il Partito Liberale, che raccoglieva fra le sue file gran parte della classe dirigente prefascista, poteva contare su una serie di adesioni illustri (Einaudi e Croce), oltre che sul sostegno dell’industria e dei proprietari terrieri. Ma il rapporto tra i leader e la base elettorale – di tipo personale e clientelare – era ormai definitivamente compromesso.
Fra i partiti laici, il partito repubblicano si distingueva per l’intransigenza sulla questione istituzionale e aveva infatti respinto ogni compromesso con la monarchia, rifiutando persino di partecipare al CLN.
In una posizione particolare si collocava il Partito d’Azione (PDA). Forte del prestigio che gli veniva dall’adesione di molti leader dell’antifascismo (Parri, Lussu, Valiani) il PDA si presentava come una forza nuova e moderna e si faceva promotore di ampie riforme sociali e istituzionali. Il partito era però privo di una base di massa e faticava a trovare una sua identità, diviso com’era fra un’ala socialista e un’ala liberal democratica, un contrasto che lo avrebbe portato di lì a poco ad una scissione (febbraio 1946) e al successivo scioglimento.
Quanto alla destra, essa appariva politicamente fuori gioco nel clima dopo-liberazione, ma era ancora forte, soprattutto nel mezzogiorno e tendeva a diventarlo sempre più con l’accentuarsi delle insofferenze nei confronti del nuovo assetto politico. I gruppi di destra andarono in parte ad ingrossare le file della DC e del PLI, in parte si raccolsero sotto le bandiere monarchiche e in parte contribuirono all’affermazione, clamorosa ma effimera, del movimento dell’Uomo Qualunque (fondato nel novembre del 1945 dal commediografo Guglielmo Giannini), che però già nel 1947 si era praticamente dissolto, soprattutto per la confluenza dell’opinione pubblica moderata attorno alla DC.
Per quanto riguarda gli orientamenti dei gruppi sociali, una prima riflessione va fatta sul mondo contadino che era entrata in contatto durante la Resistenza con le brigate partigiane. Il risentimento verso l’invasore tedesco per i danni alle coltivazioni, le ruberie e i soprusi avevano creato questa sorta di alleanza che si sviluppò ulteriormente quando i partiti della sinistra, e in particolare il PCI, si erano fatti carico dei problemi delle diverse categorie contadine; sono infatti gli antifascisti a dirigere e organizzare le grandi lotte dell’estate 1944 per impedire la mietitura e la trebbiatura e sono gli stessi CLN a intervenire nelle zone a più forte presenza partigiana nelle vertenze mezzadrili e bracciantili per imporre nuovi contratti di lavoro.
Di contro la proprietà agraria aveva perso i suoi punti di riferimento politico anche per la sua perdita di potere economico che si era spostato verso le grandi industrie del nord. Il nuovo accordo nel blocco dominante tra industriali del nord e alti burocrati dello Stato relega gli antichi partner agrari in posizione marginale. A tagliare la strada alle forze della reazione agraria, nelle diverse fasi del suo progetto restauratore-autoritario, sta la DC, che si sente minacciata nella sua strategia politica da un’affermazione della destra di tale portata da diventare condizionante nel governo del Paese. L’alleanza della DC con le sinistre fino al 1947 è, da questo punto di vista, funzionale al contenimento della pressione dello schieramento ultraconservatore. Solo dopo la grande vittoria del 1948 la DC si sentirà abbastanza sicura da gestire in proprio questa partita, essendosi preventivamente assicurata l’adesione di vaste fasce moderate e le simpatie di non pochi settori della stessa destra, illusi che la battaglia anticomunista ingaggiata dai cattolici prefiguri l’inserimento della DC nel blocco reazionario.
ATTUALITÀ
Le scadenze elettorali del 2006
Da aprile a giugno gli elettori, sia i singoli cittadini che i rappresentanti del Parlamento appena eletti, si troveranno ad affrontare una serie di scadenze elettorali.
ELEZIONI POLITICHE
Domenica 9 aprile, dalle ore 8 alle ore 22, e lunedi’ 10 aprile, dalle ore 7 alle ore 15, si svolgeranno le operazioni di voto per il rinnovo del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati (XV legislatura).
Le operazioni di scrutinio avranno inizio lunedi’ 10 aprile cominciando dallo spoglio delle schede per l’elezione del Senato.
La nuova legge elettorale
La nuova legge elettorale (approvata il 21 dicembre 2005) ha introdotto un sistema proporzionale con premio di maggioranza e soglie di sbarramento.
Per l’elezione della Camera possono votare i maggiorenni aventi diritto al voto, mentre per l’elezione del Senato possono votare coloro che, alla data del 9 aprile, hanno compiuto il venticinquesimo anno di età.
Sia per l’elezione della Camera (scheda rosa) sia per l’elezione del Senato (scheda gialla), l’elettore esprime il voto tracciando con la matita un solo segno (esempio, una croce o una barra) nel riquadro che contiene il contrassegno della lista prescelta.
E’ vietato scrivere sulla scheda il nominativo dei candidati e qualsiasi altra indicazione.
Con la nuova legge elettorale non si possono dare voti di preferenza. Le liste sono «bloccate» quindi sono automaticamente eletti i candidati che si trovano nelle prime posizioni della lista tanti quanti sono i seggi assegnati a quella lista. Ossia, se a una lista vengono assegnati dieci seggi, sono eletti i primi dieci candidati che compaiono in quella lista. Il voto di preferenza a un candidato rischia di portare all’annullamento della scheda.
Il 9 e 10 aprile si torna a votare per la prima volta dal 1992 con il sistema proporzionale, ma con alcune differenze. Rispetto al sistema maggioritario (con il quale si è votato nel 1994, nel 1996 e nel 2001), in cui in ogni singolo collegio il candidato che otteneva più voti (anche un solo voto in più degli avversari) vinceva il collegio e quindi il seggio, con il sistema proporzionale ogni partito ottiene tanti deputati o senatori a seconda della percentuale ricevuta alle urne.
CAMERA DEI DEPUTATI
La nuova legge elettorale, per assicurare la governabilità e una maggioranza sicura in Parlamento, assegna un premio di maggioranza. Alla coalizione che ha ottenuto il maggior numero di voti vengono assegnati 340 seggi alla Camera dei deputati, anche se in realtà dalle urne ne risulterebbero di meno. Se invece già dalle urne ottiene un numero di seggi superiore a 340 (per esempio 352), alla coalizione vincente vengono assegnati quelli effettivamente ottenuti.
La nuova legge elettorale ha introdotto tre sbarramenti. Per partecipare all’assegna-zione dei seggi, ogni coalizione deve ottenere almeno il 10% dei voti validi su scala nazionale e deve includere almeno un partito che ha ottenuto almeno il 2% su scala nazionale oppure una lista di minoranze linguistiche che ha ottenuto almeno il 20% nelle regioni a statuto speciale in cui tali minoranze sono tutelate. Se un partito si presenta da solo senza far parte di una coalizione, per partecipare all’assegnazione dei seggi deve ottenere almeno il 4% su scala nazionale.
La Camera dei deputati è composta da 630 deputati eletti dal popolo. Di questi, dodici sono eletti nella circoscrizione estero, gli altri 618 in Italia.
SENATO DELLA REPUBBLICA
Escluse Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige e Molise, in ognuna delle restanti 17 regioni alla coalizione che ha ottenuto più voti viene assegnato il 55% dei senatori spettanti a quella regione (arrotondato al numero superiore). Se dalle urne la coalizione vincente ottiene più del 55%, le vengono assegnati i senatori corrispettivi alla percentuale ottenuta.
Per partecipare all’assegnazione dei seggi in ogni singola regione, le coalizioni devono ottenere almeno il 20% dei voti validi in quella regione e devono contenere almeno un partito che abbia ottenuto almeno il 3% dei voti sempre nella regione in esame. Se un partito si presenta da solo in una regione senza far parte di una coalizione, per partecipare all’assegnazione dei seggi di quella regione deve ottenere almeno l’8% nella regione in esame.
Il Senato della Repubblica è composto da 315 senatori eletti dal popolo. Di questi, sei sono eletti nella circoscrizione estero, gli altri 309 in Italia. Ai senatori eletti vanno aggiunti i senatori a vita: in questo momento sono sette, diventeranno otto quando in maggio Carlo Azeglio Ciampi non sarà più presidente della Repubblica (a meno che non venga rieletto). Quindi dalla fine di maggio i senatori saranno 323.
Possono essere eletti al Senato tutti i cittadini italiani in possesso dei diritti civili che hanno compiuto 40 anni di età entro il giorno delle elezioni.
ELEZIONE DEL NUOVO PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
Il Parlamento della XV legislatura si riunirà per la prima volta venerdì 28 aprile e ogni Camera dovrà eleggere il proprio presidente.
Nei primi giorni di maggio inizieranno le procedure per l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica, il cui mandato durerà sette anni.
ELEZIONI AMMINISTRATIVE (SINDACI)
Nei primi giorni di marzo sono state fissate le date per le elezioni amministrative.
(Le elezioni regionali, che si svolgono ogni cinque anni, si sono tenute nel 2005).
Questa scadenza viene a coincidere con le elezioni politiche perché con il Decreto Legislativo n. 267 del 18 agosto 2000 è stato deciso di prolungare a cinque anni (prima erano quattro) la durata del mandato dei sindaci.
Le elezioni amministrative si terranno il 28 e il 29 maggio 2006 per il rinnovo di 8 amministrazioni provinciali e di 1.267 amministrazioni comunali (tra cui Milano, Roma, Napoli e Torino).
Si voterà inoltre per le province di Mantova, Pavia, Treviso, Imperia, Ravenna, Lucca, Campobasso e Reggio Calabria.
In Friuli Venezia Giulia si voterà anche per il rinnovo degli organi di tre amministrazioni provinciali (Gorizia, Trieste e Udine).
In Sicilia per il rinnovo del consiglio regionale e per l´amministrazione di 13 comuni.
Per il secondo turno (cioè gli eventuali ballottaggi) delle amministrative si voterà l’11 e il 12 giugno.
REFERENDUM COSTITUZIONALE
Verso la fine di giugno (le decisioni della Corte di Cassazione sono attese per il 21 aprile) si voterà per abrogare o confermare la riforma costituzionale votata quest’anno a stretta maggioranza dal Parlamento.
Sarà il presidente della Repubblica a indire il referendum. Solo dopo il governo dovrà individuare «una data fra il 50mo e il 70mo giorno dalla data di indizione del referendum», quindi si voterà dopo il 10 giugno.
Il referendum sarà valido qualunque sarà il numero dei votanti in quanto per i referendum costituzionali non è previsto il quorum.
FONTI E APPROFONDIMENTI
La Storia, Grandi Opere di UTET Cultura, Vol. 22 “Dal centrismo all’esperienza del centro-sinistra”, La Repubblica, Roma, 2004
Il mondo contemporaneo dal 1848 a oggi di G. Sabbatucci e V. Vidotto, Bari, Laterza, 2005
La formazione dell’Italia democratica di Francesco Barbagallo, in “Storia dell’Italia repubblicana”, Vol. I, Torino, Einaudi , 1994.
L’Italia democratica. Profilo del primo cinquantennio di Nicola Tranfaglia, in “La storia – I grandi problemi dell’età contemporanea”, opera coordinata da N. Tranfaglia e M. Firpo, Vol. V, Garzanti, 2001, pp.79-120;
Per la parte di Attualità: http://www.interno.it/salastampa/comunicati/pages/articolo.php?idarticolo=1004 e www.corriere.it
CUBA E LA CRISI DEI MISSILI
EDITORIALE
Nel 1962 è Cuba ad attirare l’attenzione del mondo: lo scontro tra le due superpotenze si consuma in 13 giorni.
Nella seconda parte il testo dei primi articoli della legge 194. Buona lettura.
I FATTI
Agosto 1962: stesura a Mosca della bozza di trattato tra Cuba e l’Unione Sovietica per l’installazione di basi missilistiche nel territorio dell’isola.
I servizi segreti americani, tra la fine di agosto e ottobre, raccolgono le prime notizie relative a movimenti di forze superiori al normale sul territorio cubano.
9 ottobre 1962: viene autorizzato il primo volo di ricognizione di un aereo spia U-2.
15 ottobre 1962: i rilievi fotografici confermano che i sovietici stanno completando la costruzione di basi missilistiche per il dispiegamento di missili a media gittata già trasportati a Cuba.
16 ottobre: il gruppo dei più stretti collaboratori del presidente Kennedy si riunisce in seduta speciale come Executive Committee del National Security Conuncil (in sigla ExComm).
Questo organismo (di cui fanno parte il segretario di Stato Dean Rusk, il segretario della Difesa Robert McNamara, il direttore della CIA John McCone, Robert Kennedy ed un ristretto numero di consulenti politici, militari e diplomatici) si riunisce quasi senza interruzione per 12 giorni fino al momento conclusivo della crisi.
22 ottobre: discorso alla nazione del presidente Kennedy, in parallelo a un ricorso presentato alle Nazioni Unite e ad una lettera personale a Chruscev, in cui si rivela quanto sta accadendo a Cuba e si dichiara che gli USA hanno fissato una linea di “quarantena” oltre la quale essi non concedono il passaggio di navi sovietiche dirette a Cuba e cariche di armamenti.
Le navi che violeranno il blocco saranno ispezionate e, nel caso, respinte con la forza.
24 ottobre: Chruscev ordina alle navi sovietiche di non forzare il blocco.
26 ottobre: lettera privata di Chruscev a Kennedy in cui si impegna a rimuovere i missili già piazzati a Cuba in cambio della dichiarazione pubblica di Kennedy che gli USA non avrebbero mai invaso Cuba, né appoggiato altri tentativi di invasione dell’isola.
27 ottobre: la radio di Mosca trasmette una seconda lettera di Chruscev nella quale il ritiro dei missili di Cuba è condizionato alla rinuncia americana ai missili Jupiter installati in Turchia.
Kennedy risponde pubblicamente alla prima lettera di Chruscev accettandola e aggiungendo una proposta di accordo riguardante altri armamenti, come proposto nella seconda lettera.
Nello stesso giorno viene raggiunto un accordo, non pubblicizzato e mai confermato ufficialmente, con cui gli americani annunciano l’intenzione di rimuovere i missili installati in Turchia e in Italia.
Tra la fine di ottobre e i primi giorni di novembre i sovietici iniziano a smantellare le basi cubane.
IL CONTESTO
Il 1° gennaio 1959 Batista, capo del regime dittatoriale che governava l’isola di Cuba dal 1952, sentendosi incapace di resistere alla pressione delle forze che si opponevano al suo regime e consapevole di non essere appoggiato dagli Stati Uniti, fuggì dall’Avana dove i “partigiani” di Castro fecero il loro ingresso trionfale.
La coalizione politica alla testa della quale stava Fidel Castro accompagnato dal fratello Raul come comandante delle forze armate dimostrò la sua profonda volontà di moralizzazione e cambiamento.
Gli Stati Uniti avevano riconosciuto tempestivamente il regime di Castro, che pareva essere un modello riformistico nuovo e radi-cato nel popolo con il quale si pensava di poter collaborare, nonostante le massicce infiltrazioni comuniste presenti nel movimento.
Alle pressioni degli USA contro il pericolo dell’alleanza tra castristi e comunisti Castro rispose con la nazionalizzazione senza indennizzo dei beni appartenenti alle imprese americane; ebbe così inizio un massiccio esodo da Cuba che portò alcune centinaia di migliaia di persone a rifugiarsi in Florida, dove si costituì la base organizzativa del futuro movimento anticastrista.
La tensione si acuì dopo la visita a Cuba del vice primo ministro sovietico nel febbraio del 1960: venne firmato un accordo in base al quale l’URSS si impegnava ad acquistare il raccolto cubano di zucchero a un prezzo inferiore a quello pagato dagli americani ma concedeva in cambio un prestito di 100 milioni di dollari. Era chiaro che anche Cuba sarebbe diventata uno dei nuovi fronti della competizione fra la superpotenze. Gli Stati Uniti, minacciati da vicino per la prima volta nella loro storia, approvarono in luglio l’embargo sulle importazioni di zucchero cubano. Castro si appellò al Consiglio di Sicurezza contro “l’aggressione economica” americana e Chruscev minacciò l’uso delle armi atomiche contro gli USA in caso di invasione di Cuba.
Nikita S. Chruscev 1894-1971
I rapporti diretti fra USA e Cuba subirono un progressivo deterioramento; Castro annunciò l’inizio di relazioni diplomatiche con la Cina e dichiarò di accettare la protezione sovietica. Da allora ebbe inizio un flusso di aiuti economici, tecnici e militari dall’URSS verso l’isola dei Caraibi. Nel gennaio del 1961, quando Castro chiese di ridurre il personale dell’ambasciata americana da 130 a 11 membri, il governo di Washington decise di rompere le relazioni diplomatiche fra i due paesi.
Nel 1961 si diede esecuzione al piano per ribaltare la situazione a Cuba: il 17 aprile 1200 esuli sbarcarono sulla costa meridionale dell’isola di Cuba, nella Baia dei Porci, confidando con il loro sbarco di dare la scintilla di un’insurrezione popolare contro Castro; Kennedy, male informato dai servizi segreti americani, ritenendo che l’impresa avrebbe avuto facile successo, negò agli invasori l’appoggio aereo, per dimostrare una neutralità nella quale nessuno poteva credere; in tre giorni tutti gli uomini sbarcati vennero fatti prigionieri, senza che lo sbarco accendesse la benché minima scintilla di rivolta. Ben presto risultò chiaro che, nonostante il tentativo di negare le responsabilità americane nello sbarco, i “volontari” erano stati addestrati dalla CIA, che aveva la responsabilità di tutto l’episodio: la perdita di prestigio fu notevole. Castro ebbe la possibilità di accusare gli USA di mire aggressive e tutte le sue iniziative di autodifesa vennero automaticamente legittimate. Il 1° maggio Castro dichiarò che Cuba era una repubblica socialista e da allora la trasformazione del sistema cubano in senso marxista-leninista, cioè modellato sull’esempio sovietico, divenne irreversibile.
L’idea di installare basi missilistiche sovietiche a Cuba nacque a Mosca fra aprile e maggio del 1962; essa era il risultato di tre valutazioni: offrire una migliore protezione al baluardo comunista nell’emisfero occidentale, controbilanciare la supremazia nucleare americana e seminare il sospetto che l’iniziativa a Cuba fosse una nuova fase dell’offensiva diplomatico-nucleare sovietica già lanciata contro Berlino.
Esponenti cubani e sovietici misero a punto la bozza di un trattato che regolamentava sia l’invio a Cuba di un contingente militare sovietico di circa 45.000 uomini, sia l’installazione nell’isola, nel più assoluto segreto, di cinque reggimenti specialistici capaci di lanciare non meno di 40 missili nucleari contro il territorio USA, oltre una serie di missili tattici da utilizzare contro un eventuale invasione americana dal mare.
Per la fine di agosto si passò all’esecuzione di quanto progettato e I servizi segreti americani cominciarono ad avere notizie sui fatti.
Dopo che il 15 ottobre i rilievi fotografici avevano confermato i sospetti che erano in costruzione basi missilistiche sul territorio cubano, a partire dal 16 ottobre si riunì il Comitato Esecutivo del Consiglio di Sicurezza Nazionale americano. I rischi militari vennero valutati come non risolutivi per la supremazia USA negli armamenti nucleari, ma più importanti apparvero i rischi diplomatici e quelli politici. Si pensò che i sovietici volessero esercitare su Cuba la pressione che erano stati costretti ad allentare su Berlino; esistevano però anche aspetti politici più generali, relativi alla credibilità della potenza americana nel mondo e alla solidità della NATO, che dopo la crisi di Suez del 1956 non era stata ancora pienamente ristabilita.
Gli americani si orientarono per una risposta intermedia, che alzasse il livello dello scontro lasciando tuttavia ad entrambe le parti una via di uscita prima del ricorso a soluzioni estreme.
John F. Kennedy 1917-1963
Dopo il discorso di Kennedy alla nazione e il ricorso presentato alle Nazioni Unite dal delegato americano Adlai Stevenson, la tensione dei giorni seguenti raggiunse il suo massimo, intensissimi furono i contatti diplomatici fra le due superpotenze.
Le prime reazioni sovietiche e cubane furono negative: altri due ricorsi al Consiglio di sicurezza dell’ONU si aggiunsero a quello americano, ma Stevenson riuscì facilmente a dimostrare la fondatezza delle prove di cui poteva disporre. Dietro l’intransigenza si sviluppava però la riflessione e si dipanavano le implicazioni della mossa sovietica e della risposta americana. Ciò che più si temeva non era un gesto sovietico diretto contro la “quarantena” americana quanto una ritorsione contro Berlino. Gli Stati Uniti non potevano permettere che i missili sovietici, una volta scoperti, restassero a Cuba e dovevano perciò trovare il modo per uscire dalla crisi con il massimo successo possibile, ma anche senza oltrepassare la soglia di guardia. Né potevano sottovalutare i pericoli di una eventuale ritorsione in Germania. Dunque era necessario trovare sul piano politico una serie di concessioni compatibili con il ritiro dei missili già installati a Cuba.
Sotto la spinta dell’opinione pubblica mondiale, inspirata anche dall’intervento pacifista di papa Giovanni XXIII, un primo passo in direzione di un compromesso venne fatto da Chruscev, con la prima lettera, privata, inviata a Kennedy il 26 ottobre.
Dopo la seconda lettera, trasmessa dalla radio di Mosca la mattina del 27 ottobre, che chiedeva il ritiro dei missili installati in Turchia, Kennedy decise di rispondere in modo da consentire che egli apparisse come il vincitore dello scontro.
Il presidente americano rispose pubblicamente alla prima lettera, accettandola con un certo calore retorico e con alcune precisazioni formali, inserendo nella propria adesione allo scambio tra i missili cubani e la garanzia di non intervento a Cuba la frase “l’effetto di tale accordo nell’allentare le tensioni mondiali ci metterebbe in grado di lavorare verso un accordo più generale riguardante altri armamenti, come proposto nella vostra seconda lettera resa pubblica”.
La frase, a prima vista generica, acquistava molto significato in relazione alla seconda lettera e a quanto intanto succedeva a livello diplomatico.
L’incontro del 27 ottobre fra Robert Kennedy e il nuovo ambasciatore sovietico a Washington Anatoly Dobrynin stabilì il compromesso sostanziale, al quale non venne data pubblicità e la cui esistenza venne persino smentita ai senatori americani qualche mese più tardi dal segretario di Stato Rusk. Alla base del compromesso vi era l’annuncio dell’intenzione americana di rimuovere i missili Jupiter dalla Turchia e dall’Italia.
Raggiunto l’accordo la crisi scese rapidamente di tono. Il 28 ottobre 1962 era chiaro che lo scontro era stato evitato grazie al modo abilmente duro e duttile con il quale Kennedy lo aveva gestito e grazie al senso della misura di Chruscev.
Per l’Europa occidentale, cioè per i rapporti interni al sistema atlantico, la crisi di Cuba rappresentò il momento di avvio di una serie di chiarimenti di fondo. La crisi aveva avuto una gestione rigorosamente bipolare, nessuno dei paesi europei venne preventivamente consultato sulle decisioni del governo di Washington, né lo fu il Consiglio della NATO.
De Gaulle, che sostenne con energia la fermezza di Kennedy, e Adenauer, il quale considerò la crisi di Cuba provvidenziale perché allontanava il ripetersi di una crisi a Berlino, ravvisarono nella politica americana il desiderio di assumere in modo totale il compito di dirigere strategicamente la politica occidentale. Di qui la decisione dei due statisti di attuare un processo di rapido ravvicinamento (dal quale restò esclusa la Gran Bretagna, troppo legata agli USA) sanzionato dal trattato franco-tedesco del 22 gennaio 1963.
La crisi di Cuba appare come un momento di svolta. L’abbandono dei missili installati in Turchia e in Italia fece sì che nessun missile nucleare fosse più sistemato (fino al 1979) sul terreno continentale dell’Europa. Perciò, in un certo senso, lo scontro sintetizzava e concludeva una fase della storia dei rapporti fra le superpotenze negli anni di Kennedy e di Chruscev.
ATTUALITÀ
Legge 22 maggio 1978, n. 194.
Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza.
1. Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. L'interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite. Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell'ambito delle proprie funzioni e competenze, promuovono e sviluppano i servizi socio-sanitari, nonché altre iniziative necessarie per evitare che lo aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite.
2. I consultori familiari istituiti dalla legge 29 luglio 1975, n. 405, fermo restando quanto stabilito dalla stessa legge, assistono la donna in stato di gravidanza: a) informandola sui diritti a lei spettanti in base alla legislazione statale e regionale, e sui servizi sociali, sanitari e assistenziali concretamente offerti dalle strutture operanti nel territorio; b) informandola sulle modalità idonee a ottenere il rispetto delle norme della legislazione sul lavoro a tutela della gestante; c) attuando direttamente o proponendo allo ente locale competente o alle strutture sociali operanti nel territorio speciali interventi, quando la gravidanza o la maternità creino problemi per risolvere i quali risultino inadeguati i normali interventi di cui alla lettera a); d) contribuendo a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all'interruzione della gravidanza. I consultori sulla base di appositi regolamenti o convenzioni possono avvalersi, per i fini previsti dalla legge, della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita. La somministrazione su prescrizione medica, nelle strutture sanitarie e nei consultori, dei mezzi necessari per conseguire le finalità liberamente scelte in ordine alla procreazione responsabile è consentita anche ai minori.
3. Anche per l'adempimento dei compiti ulteriori assegnati dalla presente legge ai consultori familiari, il fondo di cui all'articolo 5 della legge 29 luglio 1975, n. 405, è aumentato con uno stanziamento di L. 50.000.000.000 annui, da ripartirsi fra le regioni in base agli stessi criteri stabiliti dal suddetto articolo. […]
4. Per l'interruzione volontaria della gravidanza entro i primi novanta giorni, la donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito, si rivolge ad un consultorio pubblico istituito ai sensi dell'articolo 2, lettera a), della legge 29 luglio 1975 numero 405 , o a una struttura socio-sanitaria a ciò abilitata dalla regione, o a un medico di sua fiducia.
5. Il consultorio e la struttura socio-sanitaria, oltre a dover garantire i necessari accertamenti medici, hanno il compito in ogni caso, e specialmente quando la richiesta di interruzione della gravidanza sia motivata dall'incidenza delle condizioni economiche, o sociali, o familiari sulla salute della gestante, di esaminare con la donna e con il padre del concepito, ove la donna lo consenta, nel rispetto della dignità e della riservatezza della donna e della persona indicata come padre del concepito, le possibili soluzioni dei problemi proposti, di aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza, di metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre, di promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto. Quando la donna si rivolge al medico di sua fiducia questi compie gli accertamenti sanitari necessari, nel rispetto della dignità e della libertà della donna; valuta con la donna stessa e con il padre del concepito, ove la donna lo consenta, nel rispetto della dignità e della riservatezza della donna e della persona indicata come padre del concepito, anche sulla base dell'esito degli accertamenti di cui sopra, le circostanze che la determinano a chiedere l'interruzione della gravidanza; la informa sui diritti a lei spettanti e sugli interventi di carattere sociale cui può fare ricorso, nonché sui consultori e le strutture socio-sanitarie.
Quando il medico del consultorio o della struttura socio-sanitaria, o il medico di fiducia, riscontra l'esistenza di condizioni tali da rendere urgente l'intervento, rilascia immediatamente alla donna un certificato attestante l'urgenza. Con tale certificato la donna stessa può presentarsi ad una delle sedi autorizzate a praticare la interruzione della gravidanza. Se non viene riscontrato il caso di urgenza, al termine dell'incontro il medico del consultorio o della struttura socio-sanitaria, o il medico di fiducia, di fronte alla richiesta della donna di interrompere la gravidanza sulla base delle circostanze di cui all'articolo 4, le rilascia copia di un documento, firmato anche dalla donna, attestante lo stato di gravidanza e l'avvenuta richiesta, e la invita a soprassedere per sette giorni. Trascorsi i sette giorni, la donna può presentarsi, per ottenere la interruzione della gravidanza, sulla base del documento rilasciatole ai sensi del presente comma, presso una delle sedi autorizzate.
6. L'interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, può essere praticata:
a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna;
b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.
7. I processi patologici che configurino i casi previsti dall'articolo precedente vengono accertati da un medico del servizio ostetrico-ginecologico dell'ente ospedaliero in cui deve praticarsi l'intervento, che ne certifica l'esistenza. Il medico può avvalersi della collaborazione di specialisti. Il medico è tenuto a fornire la documentazione sul caso e a comunicare la sua certificazione al direttore sanitario dell'ospedale per l'intervento da praticarsi immediatamente. Qualora l'interruzione della gravidanza si renda necessaria per imminente pericolo per la vita della donna, l'intervento può essere praticato anche senza lo svolgimento delle procedure previste dal comma precedente e al di fuori delle sedi di cui all'articolo 8. In questi casi, il medico è tenuto a darne comunicazione al medico provinciale. Quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, l'interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso di cui alla lettera a) dell'articolo 6 e il medico che esegue l'intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto. […]
8. L'interruzione della gravidanza e’ praticata da un medico del servizio ostetrico-ginecologico presso un ospedale […].
Nei primi novanta giorni l'interruzione della gravidanza può essere praticata anche presso case di cura autorizzate dalla regione, fornite di requisiti igienico-sanitari e di adeguati servizi ostetrico-ginecologici. […]
9. Il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie non è tenuto a prendere parte alle procedure di cui agli articoli 5 e 7 ed agli interventi per l'interruzione della gravidanza quando sollevi obiezione di coscienza, con preventiva dichiarazione. […]
L'obiezione di coscienza esonera il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l'interruzione della gravidanza, e non dall'assistenza antecedente e conseguente all'intervento. Gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare lo espletamento delle procedure previste dall'articolo 7 e l'effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza richiesti secondo le modalità previste dagli articoli 5, 7 e 8. La regione ne controlla e garantisce l'attuazione anche attraverso la mobilità del personale. L'obiezione di coscienza non può essere invocata dal personale sanitario, ed esercente le attività ausiliarie quando, data la particolarità delle circostanze, il loro personale intervento è indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo. L'obiezione di coscienza si intende revocata, con effetto, immediato, se chi l’ha sollevata prende parte a procedure o a interventi per l'interruzione della gravidanza previsti dalla presente legge, al di fuori dei casi di cui al comma precedente. […]
12. La richiesta di interruzione della gravidanza secondo le procedure della presente legge è fatta personalmente dalla donna. Se la donna è di età inferiore ai diciotto anni, per l'interruzione della gravidanza è richiesto lo assenso di chi esercita sulla donna stessa la potestà o la tutela. […]
Qualora il medico accerti l'urgenza dell'intervento a causa di un grave pericolo per la salute della minore di diciotto anni, indipendentemente dall'assenso di chi esercita la potestà o la tutela e senza adire il giudice tutelare, certifica l'esistenza delle condizioni che giustificano l'interruzione della gravidanza. Tale certificazione costituisce titolo per ottenere in via d'urgenza l'intervento e, se necessario, il ricovero. Ai fini dell'interruzione della gravidanza dopo i primi novanta giorni, si applicano anche alla minore di diciotto anni le procedure di cui all'articolo 7, indipendentemente dall'assenso di chi esercita la potestà o la tutela […].
FONTI E APPROFONDIMENTI
La Storia, Grandi Opere di UTET Cultura, Vol. 14 “Dalla guerra fredda alla dissoluzione dell’URSS”, La Repubblica, Roma, 2004
Ennio Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali 1918-1999, Roma-Bari, Editori Laterza, 2000
Per le fotografie: http://www.nndb.com/people/419/000024347/ e http://www.amherst.edu/magazine/issues/0304fallwinter/jfk/
Attualità: http://www.mpv.org/a_16_IT_279_1.html e http://www.cittadinolex.kataweb.it/article_view.jsp?idArt=30717&idCat=40
Nel 1962 è Cuba ad attirare l’attenzione del mondo: lo scontro tra le due superpotenze si consuma in 13 giorni.
Nella seconda parte il testo dei primi articoli della legge 194. Buona lettura.
I FATTI
Agosto 1962: stesura a Mosca della bozza di trattato tra Cuba e l’Unione Sovietica per l’installazione di basi missilistiche nel territorio dell’isola.
I servizi segreti americani, tra la fine di agosto e ottobre, raccolgono le prime notizie relative a movimenti di forze superiori al normale sul territorio cubano.
9 ottobre 1962: viene autorizzato il primo volo di ricognizione di un aereo spia U-2.
15 ottobre 1962: i rilievi fotografici confermano che i sovietici stanno completando la costruzione di basi missilistiche per il dispiegamento di missili a media gittata già trasportati a Cuba.
16 ottobre: il gruppo dei più stretti collaboratori del presidente Kennedy si riunisce in seduta speciale come Executive Committee del National Security Conuncil (in sigla ExComm).
Questo organismo (di cui fanno parte il segretario di Stato Dean Rusk, il segretario della Difesa Robert McNamara, il direttore della CIA John McCone, Robert Kennedy ed un ristretto numero di consulenti politici, militari e diplomatici) si riunisce quasi senza interruzione per 12 giorni fino al momento conclusivo della crisi.
22 ottobre: discorso alla nazione del presidente Kennedy, in parallelo a un ricorso presentato alle Nazioni Unite e ad una lettera personale a Chruscev, in cui si rivela quanto sta accadendo a Cuba e si dichiara che gli USA hanno fissato una linea di “quarantena” oltre la quale essi non concedono il passaggio di navi sovietiche dirette a Cuba e cariche di armamenti.
Le navi che violeranno il blocco saranno ispezionate e, nel caso, respinte con la forza.
24 ottobre: Chruscev ordina alle navi sovietiche di non forzare il blocco.
26 ottobre: lettera privata di Chruscev a Kennedy in cui si impegna a rimuovere i missili già piazzati a Cuba in cambio della dichiarazione pubblica di Kennedy che gli USA non avrebbero mai invaso Cuba, né appoggiato altri tentativi di invasione dell’isola.
27 ottobre: la radio di Mosca trasmette una seconda lettera di Chruscev nella quale il ritiro dei missili di Cuba è condizionato alla rinuncia americana ai missili Jupiter installati in Turchia.
Kennedy risponde pubblicamente alla prima lettera di Chruscev accettandola e aggiungendo una proposta di accordo riguardante altri armamenti, come proposto nella seconda lettera.
Nello stesso giorno viene raggiunto un accordo, non pubblicizzato e mai confermato ufficialmente, con cui gli americani annunciano l’intenzione di rimuovere i missili installati in Turchia e in Italia.
Tra la fine di ottobre e i primi giorni di novembre i sovietici iniziano a smantellare le basi cubane.
IL CONTESTO
Il 1° gennaio 1959 Batista, capo del regime dittatoriale che governava l’isola di Cuba dal 1952, sentendosi incapace di resistere alla pressione delle forze che si opponevano al suo regime e consapevole di non essere appoggiato dagli Stati Uniti, fuggì dall’Avana dove i “partigiani” di Castro fecero il loro ingresso trionfale.
La coalizione politica alla testa della quale stava Fidel Castro accompagnato dal fratello Raul come comandante delle forze armate dimostrò la sua profonda volontà di moralizzazione e cambiamento.
Gli Stati Uniti avevano riconosciuto tempestivamente il regime di Castro, che pareva essere un modello riformistico nuovo e radi-cato nel popolo con il quale si pensava di poter collaborare, nonostante le massicce infiltrazioni comuniste presenti nel movimento.
Alle pressioni degli USA contro il pericolo dell’alleanza tra castristi e comunisti Castro rispose con la nazionalizzazione senza indennizzo dei beni appartenenti alle imprese americane; ebbe così inizio un massiccio esodo da Cuba che portò alcune centinaia di migliaia di persone a rifugiarsi in Florida, dove si costituì la base organizzativa del futuro movimento anticastrista.
La tensione si acuì dopo la visita a Cuba del vice primo ministro sovietico nel febbraio del 1960: venne firmato un accordo in base al quale l’URSS si impegnava ad acquistare il raccolto cubano di zucchero a un prezzo inferiore a quello pagato dagli americani ma concedeva in cambio un prestito di 100 milioni di dollari. Era chiaro che anche Cuba sarebbe diventata uno dei nuovi fronti della competizione fra la superpotenze. Gli Stati Uniti, minacciati da vicino per la prima volta nella loro storia, approvarono in luglio l’embargo sulle importazioni di zucchero cubano. Castro si appellò al Consiglio di Sicurezza contro “l’aggressione economica” americana e Chruscev minacciò l’uso delle armi atomiche contro gli USA in caso di invasione di Cuba.
Nikita S. Chruscev 1894-1971
I rapporti diretti fra USA e Cuba subirono un progressivo deterioramento; Castro annunciò l’inizio di relazioni diplomatiche con la Cina e dichiarò di accettare la protezione sovietica. Da allora ebbe inizio un flusso di aiuti economici, tecnici e militari dall’URSS verso l’isola dei Caraibi. Nel gennaio del 1961, quando Castro chiese di ridurre il personale dell’ambasciata americana da 130 a 11 membri, il governo di Washington decise di rompere le relazioni diplomatiche fra i due paesi.
Nel 1961 si diede esecuzione al piano per ribaltare la situazione a Cuba: il 17 aprile 1200 esuli sbarcarono sulla costa meridionale dell’isola di Cuba, nella Baia dei Porci, confidando con il loro sbarco di dare la scintilla di un’insurrezione popolare contro Castro; Kennedy, male informato dai servizi segreti americani, ritenendo che l’impresa avrebbe avuto facile successo, negò agli invasori l’appoggio aereo, per dimostrare una neutralità nella quale nessuno poteva credere; in tre giorni tutti gli uomini sbarcati vennero fatti prigionieri, senza che lo sbarco accendesse la benché minima scintilla di rivolta. Ben presto risultò chiaro che, nonostante il tentativo di negare le responsabilità americane nello sbarco, i “volontari” erano stati addestrati dalla CIA, che aveva la responsabilità di tutto l’episodio: la perdita di prestigio fu notevole. Castro ebbe la possibilità di accusare gli USA di mire aggressive e tutte le sue iniziative di autodifesa vennero automaticamente legittimate. Il 1° maggio Castro dichiarò che Cuba era una repubblica socialista e da allora la trasformazione del sistema cubano in senso marxista-leninista, cioè modellato sull’esempio sovietico, divenne irreversibile.
L’idea di installare basi missilistiche sovietiche a Cuba nacque a Mosca fra aprile e maggio del 1962; essa era il risultato di tre valutazioni: offrire una migliore protezione al baluardo comunista nell’emisfero occidentale, controbilanciare la supremazia nucleare americana e seminare il sospetto che l’iniziativa a Cuba fosse una nuova fase dell’offensiva diplomatico-nucleare sovietica già lanciata contro Berlino.
Esponenti cubani e sovietici misero a punto la bozza di un trattato che regolamentava sia l’invio a Cuba di un contingente militare sovietico di circa 45.000 uomini, sia l’installazione nell’isola, nel più assoluto segreto, di cinque reggimenti specialistici capaci di lanciare non meno di 40 missili nucleari contro il territorio USA, oltre una serie di missili tattici da utilizzare contro un eventuale invasione americana dal mare.
Per la fine di agosto si passò all’esecuzione di quanto progettato e I servizi segreti americani cominciarono ad avere notizie sui fatti.
Dopo che il 15 ottobre i rilievi fotografici avevano confermato i sospetti che erano in costruzione basi missilistiche sul territorio cubano, a partire dal 16 ottobre si riunì il Comitato Esecutivo del Consiglio di Sicurezza Nazionale americano. I rischi militari vennero valutati come non risolutivi per la supremazia USA negli armamenti nucleari, ma più importanti apparvero i rischi diplomatici e quelli politici. Si pensò che i sovietici volessero esercitare su Cuba la pressione che erano stati costretti ad allentare su Berlino; esistevano però anche aspetti politici più generali, relativi alla credibilità della potenza americana nel mondo e alla solidità della NATO, che dopo la crisi di Suez del 1956 non era stata ancora pienamente ristabilita.
Gli americani si orientarono per una risposta intermedia, che alzasse il livello dello scontro lasciando tuttavia ad entrambe le parti una via di uscita prima del ricorso a soluzioni estreme.
John F. Kennedy 1917-1963
Dopo il discorso di Kennedy alla nazione e il ricorso presentato alle Nazioni Unite dal delegato americano Adlai Stevenson, la tensione dei giorni seguenti raggiunse il suo massimo, intensissimi furono i contatti diplomatici fra le due superpotenze.
Le prime reazioni sovietiche e cubane furono negative: altri due ricorsi al Consiglio di sicurezza dell’ONU si aggiunsero a quello americano, ma Stevenson riuscì facilmente a dimostrare la fondatezza delle prove di cui poteva disporre. Dietro l’intransigenza si sviluppava però la riflessione e si dipanavano le implicazioni della mossa sovietica e della risposta americana. Ciò che più si temeva non era un gesto sovietico diretto contro la “quarantena” americana quanto una ritorsione contro Berlino. Gli Stati Uniti non potevano permettere che i missili sovietici, una volta scoperti, restassero a Cuba e dovevano perciò trovare il modo per uscire dalla crisi con il massimo successo possibile, ma anche senza oltrepassare la soglia di guardia. Né potevano sottovalutare i pericoli di una eventuale ritorsione in Germania. Dunque era necessario trovare sul piano politico una serie di concessioni compatibili con il ritiro dei missili già installati a Cuba.
Sotto la spinta dell’opinione pubblica mondiale, inspirata anche dall’intervento pacifista di papa Giovanni XXIII, un primo passo in direzione di un compromesso venne fatto da Chruscev, con la prima lettera, privata, inviata a Kennedy il 26 ottobre.
Dopo la seconda lettera, trasmessa dalla radio di Mosca la mattina del 27 ottobre, che chiedeva il ritiro dei missili installati in Turchia, Kennedy decise di rispondere in modo da consentire che egli apparisse come il vincitore dello scontro.
Il presidente americano rispose pubblicamente alla prima lettera, accettandola con un certo calore retorico e con alcune precisazioni formali, inserendo nella propria adesione allo scambio tra i missili cubani e la garanzia di non intervento a Cuba la frase “l’effetto di tale accordo nell’allentare le tensioni mondiali ci metterebbe in grado di lavorare verso un accordo più generale riguardante altri armamenti, come proposto nella vostra seconda lettera resa pubblica”.
La frase, a prima vista generica, acquistava molto significato in relazione alla seconda lettera e a quanto intanto succedeva a livello diplomatico.
L’incontro del 27 ottobre fra Robert Kennedy e il nuovo ambasciatore sovietico a Washington Anatoly Dobrynin stabilì il compromesso sostanziale, al quale non venne data pubblicità e la cui esistenza venne persino smentita ai senatori americani qualche mese più tardi dal segretario di Stato Rusk. Alla base del compromesso vi era l’annuncio dell’intenzione americana di rimuovere i missili Jupiter dalla Turchia e dall’Italia.
Raggiunto l’accordo la crisi scese rapidamente di tono. Il 28 ottobre 1962 era chiaro che lo scontro era stato evitato grazie al modo abilmente duro e duttile con il quale Kennedy lo aveva gestito e grazie al senso della misura di Chruscev.
Per l’Europa occidentale, cioè per i rapporti interni al sistema atlantico, la crisi di Cuba rappresentò il momento di avvio di una serie di chiarimenti di fondo. La crisi aveva avuto una gestione rigorosamente bipolare, nessuno dei paesi europei venne preventivamente consultato sulle decisioni del governo di Washington, né lo fu il Consiglio della NATO.
De Gaulle, che sostenne con energia la fermezza di Kennedy, e Adenauer, il quale considerò la crisi di Cuba provvidenziale perché allontanava il ripetersi di una crisi a Berlino, ravvisarono nella politica americana il desiderio di assumere in modo totale il compito di dirigere strategicamente la politica occidentale. Di qui la decisione dei due statisti di attuare un processo di rapido ravvicinamento (dal quale restò esclusa la Gran Bretagna, troppo legata agli USA) sanzionato dal trattato franco-tedesco del 22 gennaio 1963.
La crisi di Cuba appare come un momento di svolta. L’abbandono dei missili installati in Turchia e in Italia fece sì che nessun missile nucleare fosse più sistemato (fino al 1979) sul terreno continentale dell’Europa. Perciò, in un certo senso, lo scontro sintetizzava e concludeva una fase della storia dei rapporti fra le superpotenze negli anni di Kennedy e di Chruscev.
ATTUALITÀ
Legge 22 maggio 1978, n. 194.
Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza.
1. Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. L'interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite. Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell'ambito delle proprie funzioni e competenze, promuovono e sviluppano i servizi socio-sanitari, nonché altre iniziative necessarie per evitare che lo aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite.
2. I consultori familiari istituiti dalla legge 29 luglio 1975, n. 405, fermo restando quanto stabilito dalla stessa legge, assistono la donna in stato di gravidanza: a) informandola sui diritti a lei spettanti in base alla legislazione statale e regionale, e sui servizi sociali, sanitari e assistenziali concretamente offerti dalle strutture operanti nel territorio; b) informandola sulle modalità idonee a ottenere il rispetto delle norme della legislazione sul lavoro a tutela della gestante; c) attuando direttamente o proponendo allo ente locale competente o alle strutture sociali operanti nel territorio speciali interventi, quando la gravidanza o la maternità creino problemi per risolvere i quali risultino inadeguati i normali interventi di cui alla lettera a); d) contribuendo a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all'interruzione della gravidanza. I consultori sulla base di appositi regolamenti o convenzioni possono avvalersi, per i fini previsti dalla legge, della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita. La somministrazione su prescrizione medica, nelle strutture sanitarie e nei consultori, dei mezzi necessari per conseguire le finalità liberamente scelte in ordine alla procreazione responsabile è consentita anche ai minori.
3. Anche per l'adempimento dei compiti ulteriori assegnati dalla presente legge ai consultori familiari, il fondo di cui all'articolo 5 della legge 29 luglio 1975, n. 405, è aumentato con uno stanziamento di L. 50.000.000.000 annui, da ripartirsi fra le regioni in base agli stessi criteri stabiliti dal suddetto articolo. […]
4. Per l'interruzione volontaria della gravidanza entro i primi novanta giorni, la donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito, si rivolge ad un consultorio pubblico istituito ai sensi dell'articolo 2, lettera a), della legge 29 luglio 1975 numero 405 , o a una struttura socio-sanitaria a ciò abilitata dalla regione, o a un medico di sua fiducia.
5. Il consultorio e la struttura socio-sanitaria, oltre a dover garantire i necessari accertamenti medici, hanno il compito in ogni caso, e specialmente quando la richiesta di interruzione della gravidanza sia motivata dall'incidenza delle condizioni economiche, o sociali, o familiari sulla salute della gestante, di esaminare con la donna e con il padre del concepito, ove la donna lo consenta, nel rispetto della dignità e della riservatezza della donna e della persona indicata come padre del concepito, le possibili soluzioni dei problemi proposti, di aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza, di metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre, di promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto. Quando la donna si rivolge al medico di sua fiducia questi compie gli accertamenti sanitari necessari, nel rispetto della dignità e della libertà della donna; valuta con la donna stessa e con il padre del concepito, ove la donna lo consenta, nel rispetto della dignità e della riservatezza della donna e della persona indicata come padre del concepito, anche sulla base dell'esito degli accertamenti di cui sopra, le circostanze che la determinano a chiedere l'interruzione della gravidanza; la informa sui diritti a lei spettanti e sugli interventi di carattere sociale cui può fare ricorso, nonché sui consultori e le strutture socio-sanitarie.
Quando il medico del consultorio o della struttura socio-sanitaria, o il medico di fiducia, riscontra l'esistenza di condizioni tali da rendere urgente l'intervento, rilascia immediatamente alla donna un certificato attestante l'urgenza. Con tale certificato la donna stessa può presentarsi ad una delle sedi autorizzate a praticare la interruzione della gravidanza. Se non viene riscontrato il caso di urgenza, al termine dell'incontro il medico del consultorio o della struttura socio-sanitaria, o il medico di fiducia, di fronte alla richiesta della donna di interrompere la gravidanza sulla base delle circostanze di cui all'articolo 4, le rilascia copia di un documento, firmato anche dalla donna, attestante lo stato di gravidanza e l'avvenuta richiesta, e la invita a soprassedere per sette giorni. Trascorsi i sette giorni, la donna può presentarsi, per ottenere la interruzione della gravidanza, sulla base del documento rilasciatole ai sensi del presente comma, presso una delle sedi autorizzate.
6. L'interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, può essere praticata:
a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna;
b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.
7. I processi patologici che configurino i casi previsti dall'articolo precedente vengono accertati da un medico del servizio ostetrico-ginecologico dell'ente ospedaliero in cui deve praticarsi l'intervento, che ne certifica l'esistenza. Il medico può avvalersi della collaborazione di specialisti. Il medico è tenuto a fornire la documentazione sul caso e a comunicare la sua certificazione al direttore sanitario dell'ospedale per l'intervento da praticarsi immediatamente. Qualora l'interruzione della gravidanza si renda necessaria per imminente pericolo per la vita della donna, l'intervento può essere praticato anche senza lo svolgimento delle procedure previste dal comma precedente e al di fuori delle sedi di cui all'articolo 8. In questi casi, il medico è tenuto a darne comunicazione al medico provinciale. Quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, l'interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso di cui alla lettera a) dell'articolo 6 e il medico che esegue l'intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto. […]
8. L'interruzione della gravidanza e’ praticata da un medico del servizio ostetrico-ginecologico presso un ospedale […].
Nei primi novanta giorni l'interruzione della gravidanza può essere praticata anche presso case di cura autorizzate dalla regione, fornite di requisiti igienico-sanitari e di adeguati servizi ostetrico-ginecologici. […]
9. Il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie non è tenuto a prendere parte alle procedure di cui agli articoli 5 e 7 ed agli interventi per l'interruzione della gravidanza quando sollevi obiezione di coscienza, con preventiva dichiarazione. […]
L'obiezione di coscienza esonera il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l'interruzione della gravidanza, e non dall'assistenza antecedente e conseguente all'intervento. Gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare lo espletamento delle procedure previste dall'articolo 7 e l'effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza richiesti secondo le modalità previste dagli articoli 5, 7 e 8. La regione ne controlla e garantisce l'attuazione anche attraverso la mobilità del personale. L'obiezione di coscienza non può essere invocata dal personale sanitario, ed esercente le attività ausiliarie quando, data la particolarità delle circostanze, il loro personale intervento è indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo. L'obiezione di coscienza si intende revocata, con effetto, immediato, se chi l’ha sollevata prende parte a procedure o a interventi per l'interruzione della gravidanza previsti dalla presente legge, al di fuori dei casi di cui al comma precedente. […]
12. La richiesta di interruzione della gravidanza secondo le procedure della presente legge è fatta personalmente dalla donna. Se la donna è di età inferiore ai diciotto anni, per l'interruzione della gravidanza è richiesto lo assenso di chi esercita sulla donna stessa la potestà o la tutela. […]
Qualora il medico accerti l'urgenza dell'intervento a causa di un grave pericolo per la salute della minore di diciotto anni, indipendentemente dall'assenso di chi esercita la potestà o la tutela e senza adire il giudice tutelare, certifica l'esistenza delle condizioni che giustificano l'interruzione della gravidanza. Tale certificazione costituisce titolo per ottenere in via d'urgenza l'intervento e, se necessario, il ricovero. Ai fini dell'interruzione della gravidanza dopo i primi novanta giorni, si applicano anche alla minore di diciotto anni le procedure di cui all'articolo 7, indipendentemente dall'assenso di chi esercita la potestà o la tutela […].
FONTI E APPROFONDIMENTI
La Storia, Grandi Opere di UTET Cultura, Vol. 14 “Dalla guerra fredda alla dissoluzione dell’URSS”, La Repubblica, Roma, 2004
Ennio Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali 1918-1999, Roma-Bari, Editori Laterza, 2000
Per le fotografie: http://www.nndb.com/people/419/000024347/ e http://www.amherst.edu/magazine/issues/0304fallwinter/jfk/
Attualità: http://www.mpv.org/a_16_IT_279_1.html e http://www.cittadinolex.kataweb.it/article_view.jsp?idArt=30717&idCat=40
LA GERMANIA EST E IL MURO DI BERLINO
EDITORIALE
Nell’analizzare la situazione dell’Europa nel secondo dopoguerra non si può fare a meno di parlare di Berlino, centro simbolico della guerra fredda, e della situazione in Germania orientale dopo la morte di Stalin. Buona lettura.
I FATTI
Novembre 1958: richiesta di Chruscev alle potenze occidentali di smilitarizzare Berlino Ovest entro sei mesi (e di costituirla con lo status di città libera, indipendente dalle due Germanie), altrimenti l’URSS avrebbe stipulato una pace separata con la Repubblica Democratica Tedesca (RDT, la Germania dell’Est).
Agosto 1961: Walter Ulbricht, leader della RDT, ottiene al V congresso dei partiti comunisti in svolgimento a Mosca il permesso di chiudere il confine fra le due Germanie, per le sempre più numerose fughe verso l’Ovest da parte dei cittadini della RDT.
7 agosto 1961: Chruscev annuncia la chiusura del confine fra le Germanie.
13 agosto 1961: il confine viene chiuso con 40 km. di filo spinato. 25.000 uomini della polizia del popolo (i cosiddetti Vopos) vengono posti lungo la linea di confine.
Dal 23 agosto i berlinesi sono obbligati a richiedere un permesso per passare da una parte all’altra della città.
15 agosto 1961: i militari dell’Est rinforzano la barriera con blocchi di cemento e in pochi giorni vengono chiusi i palazzi della linea di confine.
Il muro non è una semplice parete che divide la città, ma un sistema di ostacoli e dispositivi studiati per renderne impossibile l’attraversamento senza autorizzazione.
IL CONTESTO
Dal 1953 al 1955, dopo la morte di Stalin (1953), il governo sovietico, mentre promuoveva un nuovo corso al proprio interno, si era impegnato anche a promuovere dei mutamenti nell’Europa orientale. La situazione più delicata era quella della Germania dell’Est. Il confronto troppo diretto con la Germania occidentale e i legami assai stretti che Mosca imponeva ai comunisti tedeschi componevano un insieme di arretratezza e mancata libertà di movimento che i tedeschi orientali fecero rilevare.
Il 16 e 17 giugno 1953 esplosero a Berlino Est e in altre città della Germania orientale violente manifestazioni contro il governo di Walter Ulbricht e contro i sovietici. Per reprimerle fu necessario l’intervento dei carri armati sovietici, che causarono centinaia di vittime. Oltre al problema dell’eco creato nel blocco dei paesi dell’est dal processo di destalinizzazione, in Germania il governo spingeva a ottenere una ferma risposta sovietica alla politica di Adenauer nella Germania Ovest (specie dopo l’approvazione nel 1954 dell’Unione Europea Occidentale, UEO e l’adesione della Germania Ovest alla NATO del 1955) e ai rapporti intertedeschi, resi più acuti dal persistere del flusso di emigrazioni clandestine dalla Germania orientale verso quella occidentale. Fra il 1949 e il 1958 circa 2.200.000 tedeschi orientali cercarono rifugio in Occidente, in gran parte passando attraverso Berlino. Negli anni successivi e fino al 1961 il flusso rimase costante e portò la cifra totale poco sotto i tre milioni di emigrati.
La crisi di Berlino del 1958-61 spesso viene considerata come un segno del perdurare della guerra fredda in Europa; le sue origini però rientrano nell’esigenza sovietica di trovare una linea d’azione politica che bilanciasse le spinte verso l’intransigenza provenienti dai settori più esposti al contrasto con gli Occidentali, con l’esigenza di non compromettere il cammino compiuto verso la distensione. Il 27 novembre 1958 il governo sovietico inviò alle potenze occidentali una lunghissima nota nella quale preannunciava la propria intenzione di sottoscrivere un trattato di pace separata con la RDT (alla fine della 2a guerra mondiale non era stato stipulato alcun trattato di pace con la Germania). I diritti occidentali su Berlino Ovest non sarebbero stati intaccati per sei mesi ma il 27 maggio 1959 il governo sovietico avrebbe consegnato la parte orientale della città al governo Ulbricht, nel frattempo diventato capo di un governo divenuto sovrano e indipendente.
Sarebbe stato poi compito della RDT rinegoziare con le potenze occidentali i loro diritti, inclusi quelli sulle vie di comunicazione verso Berlino. Gli Occidentali avrebbero così dovuto riconoscere la RDT, indebolendo di fatto Adenauer e il governo della Germania occidentale, che non aveva relazioni diplomatiche con i Paesi che avevano riconosciuto le Repubblica Democratica Tedesca.
L’iniziativa sovietica, più che lo scontro diretto, voleva mostrare la determinazione di Mosca ad appoggiare la RDT anche al prezzo di un allontanamento sine die della prospettiva di riunificazione, mirava a rassicurare Ulbricht sull’efficacia dell’appoggio sovietico e a dissuadere Adenauer dal voler dotare la Repubblica Federale Tedesca di un armamento nucleare atomico.
Il presidente americano Eisenhower si rendeva conto dei reali motivi della richiesta sovietica. Pochi mesi dopo, nel pieno delle discussioni per l’installazione dei missili a gittata intermedia nei paesi alleati, ammetteva il disagio sovietico immaginando che se il Messico o Cuba fossero divenuti comunisti (Castro sale al potere nel gennaio del 1959) e avessero installato sul proprio territorio missili sovietici, gli Stati Uniti avrebbero dovuto reagire. L’atteggiamento americano fu perciò quello di considerare illegittime le richieste sovietiche, ma, contemporaneamente, di dare risposte distensive, come la continuazione dei negoziati per il bando degli esperimenti nucleari e la proposta di tenere un vertice dei ministri degli Esteri a Ginevra (di fatto a Ginevra, nel 1959, l’ultimatum sovietico venne lasciato cadere, così come poi accadde alla proposta di nuclearizzare la Germania Ovest). Il problema restava aperto, ma senza l’urgenza generata dal tono della dichiarazione sovietica.
Dopo una pausa di un anno, durante la quale gli esuli in fuga dalla RDT aumentarono, Chruscev, il 6 gennaio 1961, approfittando del passaggio di poteri fra Eisenhower e il neo eletto Kennedy, riprese la sua campagna per il trattato di pace con la RDT.
In febbraio Kennedy propose un vertice a due per arrivare a un chiarimento; l’incontro, che si tenne in giugno a Vienna, si risolse in una reciproca incomprensione. Kennedy propose la discussione concreta dei problemi sul tappeto; Chruscev ribadì, con la sua tecnica irruente, le sue richieste su Berlino. Kennedy seguì una linea di moderazione e misura; Chruscev interpretò questo atteggiamento come timidezza o incertezza. Kennedy, lungi dall’essere il giovane inesperto che Chruscev pensava di trovarsi davanti, stava rapidamente imparando il mestiere di presidente, vide che Chruscev voleva ancora sviluppare una tattica aggressiva e si preparò a rispondere con energia. Il 25 luglio 1961 Kennedy espose in un discorso le proprie determinazioni; annunciò il rafforzamento degli armamenti convenzionali e fece capire che, oltre ad avere già accresciuto il potenziale nucleare americano, gli USA avevano abbandonato l’atteggiamento pacato di Eisenhower e non avrebbero più accettato di lasciarsi considerare come una potenza in declino. Gli USA non avrebbero mai lanciato per primi un’offensiva nucleare, ma i sovietici dovevano sapere che la superiorità nucleare americana era tale da porli al riparo da minacce sovietiche.
Il 3 agosto 1961,in una riunione del Patto di Varsavia, la decisione di costruire a Berlino un muro che rendesse impossibile lo stillicidio delle emigrazioni apparve non come un rimedio provocatorio ma come un compromesso fra l’intransigenza di Ulbricht e la cautela di Chruscev. In un discorso del 7 agosto 1961 Chruscev abbassò il tono della polemica e escluse che vi fosse da parte sovietica qualsiasi intenzione di violare i legittimi interessi occidentali a Berlino Ovest e lungo le vie di accesso alla città.
Il 13 agosto le autorità di Berlino Est incominciarono a costruire una serie di barriere che rapidamente divennero un’alta muraglia che da allora separò fisicamente le due parti della città. Le misure di sorveglianza poste in essere per impedire ogni infrazione al divieto di transito confermavano la determinazione del governo Ulbricht di porre termine una volta per tutte allo stillicidio dei rifugiati.
Il muro divenne un simbolo di infamia e di debolezza. Esso era l’ammissione del fatto che la situazione di Berlino non poteva essere modificata. Le regole della coesistenza competitiva assumevano il concetto che la Germania non doveva essere modificata dal punto di vista territoriale. La difesa dell’Europa centrale era affidata in modo stabile agli americani, che da allora si convinsero di dover rimanere in Europa fino a tempo indeterminato. L’alternativa, cioè la nascita di una Germania nucleare, avrebbe modificato l’equilibrio fra le due superpotenze sino a un punto troppo pericoloso perché entrambe le parti potessero accettarla.
ATTUALITÀ
LA GUERRA CIVILE AMERICANA (terza parte)
“Dal punto di vista della storia militare la Guerra civile Americana è stata la prima guerra moderna. Essa segnò il passaggio dalla guerra del passato, che impegnava principalmente le forze militari, alla guerra moderna, che in grado diverso investe ogni gruppo sociale e che in definitiva comporta l’impegno completo della vita di una nazione. […] Essa fu la prima grande esperienza militare del popolo americano e la sua maggiore esperienza storica. Il dramma, l’angoscia, il valore degli anni 1861-65 divennero parte indelebile della coscienza nazionale e così pure una profonda comprensione del significato di questa guerra. Essa è il grande evento su cui si impernia la storia degli Stati Uniti, come la rivoluzione del 1789 è il cardine della storia di Francia. Appianò alcune divergenze e le appianò in modo definitivo; pose fine alla schiavitù e gettò le basi del capitalismo industriale; inoltre rinsaldò l’Unione e diede stabilità, se non addirittura vita, alla moderna nazione americana. Sebbene gli americani non abbiano cessato di discutere alcuni problemi rimasti insoluti, il grande risultato della guerra, cioè il rafforzamento dell’Unione, è stato accettato da tutte le componenti della nazione. Dopo il 1865, non c’è più stato partito, o classe, o gruppo che abbia sia pure soltanto contemplato la possibilità o la convenienza di dividere la nazione”. [“Storia del mondo moderno”, Cambridge University Press].
Fu una guerra terribile con più di 600.000 morti, cioè più delle vittime che gli Stati Uniti ebbero sommando tutte le altre guerre, dalla rivoluzione del 1775 in poi, fino ad arrivare ed includendo la guerra del Vietnam. Del resto, i campi di battaglia che ho visitato sembrano fatti apposta per favorire la carneficina: grandi e aperte spianate dove i due eserciti si potevano confrontare frontalmente con pochi ripari. Sono stati conservati così come erano a futura memoria del sacrificio e dell’eroismo di quei soldati, che potevano morire a migliaia nello spazio di un solo giorno. Vicino al muro di pietra della Sunken Road nei pressi di Fredericksbug ne morirono 40.000. Sul fatto che questa guerra abbia lasciato un segno indelebile nel popolo americano a me, lo ripeto, visitatore superficiale e occasionale non lascia dubbio alcuno. La traccia più evidente, e se volete anche più banale, è sicuramente il Lincoln memorial , il monumento ad Abraham Lincoln che sorge a Washington, con la sua posizione in linea retta al Parlamento, che sembra sorvegliare notte e giorno il bene più prezioso conquistato a caro prezzo in quegli anni: l’unità della nazione. La schiavitù, che era stata una delle cause della guerra, era stata abolita da Lincoln il 1 gennaio 1863, ma da allora lunga e dolorosa sarebbe stata la strada verso una reale emancipazione. Alla fine della guerra Lincoln, che era fermamente deciso a trattare gli Stati sudisti non come una terra nemica conquistata, ma come fratelli traviati e ritrovati, venne assassinato. Una immensa campagna di linciaggio morale fu scatenata contro il sud, che rimase sotto occupazione militare fino al 1877. Benché l’unità della nazione fosse stata salvata la contrapposizione fra nord e sud rimase e si è trascinata fino ai giorni nostri. Dopo la Guerra Civile, Ulysses S. Grant, (che aveva comandato le armate del Nord) divenne presidente degli Stati Uniti nel 1868 e nel 1872, mentre Robert E. Lee (che aveva comandato le armate del Sud) finì con onore i suoi anni insegnando all’università. La casa di Lee, che venne requisita durante la guerra per farne un cimitero (l’odierno cimitero di Arlington), è oggi un monumento nazionale. Jefferson Davis, invece, (il presidente dei confederati) fu gettato in prigione con l’accusa, inoltre, di avere cospirato per l’assassinio di Lincoln. I militari, in definitiva, ebbero una sorte migliore di quella che toccò ai politici. In buona sostanza la Guerra Civile rinforzò quella che era una consuetudine che cominciò con Washington: chi aveva ben servito il Paese sotto le armi era il miglior candidato per guidare la nazione.Il segno indelebile di questa guerra è evidente anche guardando la produzione cinematografica americana: uno dei primi e più grandi successi di Hollywood fu il film “Gone with the wind”, ambientato durante la guerra civile. Anche la produzione più recente non ha smesso di interessarsi al periodo e “Gangs of New York” si chiude con l’emblematica scena di una guerra civile che spazza via il terreno di confronto dei due protagonisti, benché anche questo fosse fatto di sangue e scontri tra opposte fazioni: le regole del gioco, da allora, non sarebbero state più le stesse. Io credo sia necessario, che ci piaccia o no, capire fino in fondo questa guerra per capire come gli Stati Uniti sentano la “guerra” e più in generale tutte le guerre che combattono e combatteranno. Non bisogna dimenticare che l’Unione, che poi vincerà, risultò essere l’aggressore della Confederazione che aveva dichiarato la secessione (benché il fatto scatenante della guerra fu l’attacco dei confederati a Forte Sumter). Fu quindi una guerra di aggressione che portò all’unità del paese. E’ naturale allora che in un Paese come questo la parola “guerra” evochi certamente orrore e distruzione, non disgiunti però da una certa ineluttabilità che renda la guerra stessa un passaggio obbligato per raggiungere obbiettivi di ordine superiore, che possano giustificare un tale sacrificio. E’ un retaggio storico importante e ancora molto vivo con il quale dobbiamo fare i conti ogniqualvolta ci si trovi a confronto con gli Stati Uniti su questi temi purtroppo di scottante attualità.
FONTI E APPROFONDIMENTI
La Storia, Grandi Opere di UTET Cultura, Vol. 14 “Dalla guerra fredda alla dissoluzione dell’URSS”, La Repubblica, Roma, 2004
Ennio Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali 1918-1999, Roma-Bari, Editori Laterza, 2000
La Storia, Grandi Opere di UTET Cultura, Vol. 11 “Risorgimento e rivoluzioni nazionali”, La Repubblica, Roma, 2004
Maldwyn A. Jones, Storia degli Stati Uniti, in Storia Universale del Corriere della Sera, vol. 25, Milano, 2005
Storia del mondo moderno Vol. X “Il culmine della potenza europea 1830-1870”, Cambridge University Press, 1964, Pubblicato in Italia da Garzanti , ristampa del 1997 - “The Civil War. A film by Ken Burns”, 1990, DVD by PBS Home Video year 2002
Nell’analizzare la situazione dell’Europa nel secondo dopoguerra non si può fare a meno di parlare di Berlino, centro simbolico della guerra fredda, e della situazione in Germania orientale dopo la morte di Stalin. Buona lettura.
I FATTI
Novembre 1958: richiesta di Chruscev alle potenze occidentali di smilitarizzare Berlino Ovest entro sei mesi (e di costituirla con lo status di città libera, indipendente dalle due Germanie), altrimenti l’URSS avrebbe stipulato una pace separata con la Repubblica Democratica Tedesca (RDT, la Germania dell’Est).
Agosto 1961: Walter Ulbricht, leader della RDT, ottiene al V congresso dei partiti comunisti in svolgimento a Mosca il permesso di chiudere il confine fra le due Germanie, per le sempre più numerose fughe verso l’Ovest da parte dei cittadini della RDT.
7 agosto 1961: Chruscev annuncia la chiusura del confine fra le Germanie.
13 agosto 1961: il confine viene chiuso con 40 km. di filo spinato. 25.000 uomini della polizia del popolo (i cosiddetti Vopos) vengono posti lungo la linea di confine.
Dal 23 agosto i berlinesi sono obbligati a richiedere un permesso per passare da una parte all’altra della città.
15 agosto 1961: i militari dell’Est rinforzano la barriera con blocchi di cemento e in pochi giorni vengono chiusi i palazzi della linea di confine.
Il muro non è una semplice parete che divide la città, ma un sistema di ostacoli e dispositivi studiati per renderne impossibile l’attraversamento senza autorizzazione.
IL CONTESTO
Dal 1953 al 1955, dopo la morte di Stalin (1953), il governo sovietico, mentre promuoveva un nuovo corso al proprio interno, si era impegnato anche a promuovere dei mutamenti nell’Europa orientale. La situazione più delicata era quella della Germania dell’Est. Il confronto troppo diretto con la Germania occidentale e i legami assai stretti che Mosca imponeva ai comunisti tedeschi componevano un insieme di arretratezza e mancata libertà di movimento che i tedeschi orientali fecero rilevare.
Il 16 e 17 giugno 1953 esplosero a Berlino Est e in altre città della Germania orientale violente manifestazioni contro il governo di Walter Ulbricht e contro i sovietici. Per reprimerle fu necessario l’intervento dei carri armati sovietici, che causarono centinaia di vittime. Oltre al problema dell’eco creato nel blocco dei paesi dell’est dal processo di destalinizzazione, in Germania il governo spingeva a ottenere una ferma risposta sovietica alla politica di Adenauer nella Germania Ovest (specie dopo l’approvazione nel 1954 dell’Unione Europea Occidentale, UEO e l’adesione della Germania Ovest alla NATO del 1955) e ai rapporti intertedeschi, resi più acuti dal persistere del flusso di emigrazioni clandestine dalla Germania orientale verso quella occidentale. Fra il 1949 e il 1958 circa 2.200.000 tedeschi orientali cercarono rifugio in Occidente, in gran parte passando attraverso Berlino. Negli anni successivi e fino al 1961 il flusso rimase costante e portò la cifra totale poco sotto i tre milioni di emigrati.
La crisi di Berlino del 1958-61 spesso viene considerata come un segno del perdurare della guerra fredda in Europa; le sue origini però rientrano nell’esigenza sovietica di trovare una linea d’azione politica che bilanciasse le spinte verso l’intransigenza provenienti dai settori più esposti al contrasto con gli Occidentali, con l’esigenza di non compromettere il cammino compiuto verso la distensione. Il 27 novembre 1958 il governo sovietico inviò alle potenze occidentali una lunghissima nota nella quale preannunciava la propria intenzione di sottoscrivere un trattato di pace separata con la RDT (alla fine della 2a guerra mondiale non era stato stipulato alcun trattato di pace con la Germania). I diritti occidentali su Berlino Ovest non sarebbero stati intaccati per sei mesi ma il 27 maggio 1959 il governo sovietico avrebbe consegnato la parte orientale della città al governo Ulbricht, nel frattempo diventato capo di un governo divenuto sovrano e indipendente.
Sarebbe stato poi compito della RDT rinegoziare con le potenze occidentali i loro diritti, inclusi quelli sulle vie di comunicazione verso Berlino. Gli Occidentali avrebbero così dovuto riconoscere la RDT, indebolendo di fatto Adenauer e il governo della Germania occidentale, che non aveva relazioni diplomatiche con i Paesi che avevano riconosciuto le Repubblica Democratica Tedesca.
L’iniziativa sovietica, più che lo scontro diretto, voleva mostrare la determinazione di Mosca ad appoggiare la RDT anche al prezzo di un allontanamento sine die della prospettiva di riunificazione, mirava a rassicurare Ulbricht sull’efficacia dell’appoggio sovietico e a dissuadere Adenauer dal voler dotare la Repubblica Federale Tedesca di un armamento nucleare atomico.
Il presidente americano Eisenhower si rendeva conto dei reali motivi della richiesta sovietica. Pochi mesi dopo, nel pieno delle discussioni per l’installazione dei missili a gittata intermedia nei paesi alleati, ammetteva il disagio sovietico immaginando che se il Messico o Cuba fossero divenuti comunisti (Castro sale al potere nel gennaio del 1959) e avessero installato sul proprio territorio missili sovietici, gli Stati Uniti avrebbero dovuto reagire. L’atteggiamento americano fu perciò quello di considerare illegittime le richieste sovietiche, ma, contemporaneamente, di dare risposte distensive, come la continuazione dei negoziati per il bando degli esperimenti nucleari e la proposta di tenere un vertice dei ministri degli Esteri a Ginevra (di fatto a Ginevra, nel 1959, l’ultimatum sovietico venne lasciato cadere, così come poi accadde alla proposta di nuclearizzare la Germania Ovest). Il problema restava aperto, ma senza l’urgenza generata dal tono della dichiarazione sovietica.
Dopo una pausa di un anno, durante la quale gli esuli in fuga dalla RDT aumentarono, Chruscev, il 6 gennaio 1961, approfittando del passaggio di poteri fra Eisenhower e il neo eletto Kennedy, riprese la sua campagna per il trattato di pace con la RDT.
In febbraio Kennedy propose un vertice a due per arrivare a un chiarimento; l’incontro, che si tenne in giugno a Vienna, si risolse in una reciproca incomprensione. Kennedy propose la discussione concreta dei problemi sul tappeto; Chruscev ribadì, con la sua tecnica irruente, le sue richieste su Berlino. Kennedy seguì una linea di moderazione e misura; Chruscev interpretò questo atteggiamento come timidezza o incertezza. Kennedy, lungi dall’essere il giovane inesperto che Chruscev pensava di trovarsi davanti, stava rapidamente imparando il mestiere di presidente, vide che Chruscev voleva ancora sviluppare una tattica aggressiva e si preparò a rispondere con energia. Il 25 luglio 1961 Kennedy espose in un discorso le proprie determinazioni; annunciò il rafforzamento degli armamenti convenzionali e fece capire che, oltre ad avere già accresciuto il potenziale nucleare americano, gli USA avevano abbandonato l’atteggiamento pacato di Eisenhower e non avrebbero più accettato di lasciarsi considerare come una potenza in declino. Gli USA non avrebbero mai lanciato per primi un’offensiva nucleare, ma i sovietici dovevano sapere che la superiorità nucleare americana era tale da porli al riparo da minacce sovietiche.
Il 3 agosto 1961,in una riunione del Patto di Varsavia, la decisione di costruire a Berlino un muro che rendesse impossibile lo stillicidio delle emigrazioni apparve non come un rimedio provocatorio ma come un compromesso fra l’intransigenza di Ulbricht e la cautela di Chruscev. In un discorso del 7 agosto 1961 Chruscev abbassò il tono della polemica e escluse che vi fosse da parte sovietica qualsiasi intenzione di violare i legittimi interessi occidentali a Berlino Ovest e lungo le vie di accesso alla città.
Il 13 agosto le autorità di Berlino Est incominciarono a costruire una serie di barriere che rapidamente divennero un’alta muraglia che da allora separò fisicamente le due parti della città. Le misure di sorveglianza poste in essere per impedire ogni infrazione al divieto di transito confermavano la determinazione del governo Ulbricht di porre termine una volta per tutte allo stillicidio dei rifugiati.
Il muro divenne un simbolo di infamia e di debolezza. Esso era l’ammissione del fatto che la situazione di Berlino non poteva essere modificata. Le regole della coesistenza competitiva assumevano il concetto che la Germania non doveva essere modificata dal punto di vista territoriale. La difesa dell’Europa centrale era affidata in modo stabile agli americani, che da allora si convinsero di dover rimanere in Europa fino a tempo indeterminato. L’alternativa, cioè la nascita di una Germania nucleare, avrebbe modificato l’equilibrio fra le due superpotenze sino a un punto troppo pericoloso perché entrambe le parti potessero accettarla.
ATTUALITÀ
LA GUERRA CIVILE AMERICANA (terza parte)
“Dal punto di vista della storia militare la Guerra civile Americana è stata la prima guerra moderna. Essa segnò il passaggio dalla guerra del passato, che impegnava principalmente le forze militari, alla guerra moderna, che in grado diverso investe ogni gruppo sociale e che in definitiva comporta l’impegno completo della vita di una nazione. […] Essa fu la prima grande esperienza militare del popolo americano e la sua maggiore esperienza storica. Il dramma, l’angoscia, il valore degli anni 1861-65 divennero parte indelebile della coscienza nazionale e così pure una profonda comprensione del significato di questa guerra. Essa è il grande evento su cui si impernia la storia degli Stati Uniti, come la rivoluzione del 1789 è il cardine della storia di Francia. Appianò alcune divergenze e le appianò in modo definitivo; pose fine alla schiavitù e gettò le basi del capitalismo industriale; inoltre rinsaldò l’Unione e diede stabilità, se non addirittura vita, alla moderna nazione americana. Sebbene gli americani non abbiano cessato di discutere alcuni problemi rimasti insoluti, il grande risultato della guerra, cioè il rafforzamento dell’Unione, è stato accettato da tutte le componenti della nazione. Dopo il 1865, non c’è più stato partito, o classe, o gruppo che abbia sia pure soltanto contemplato la possibilità o la convenienza di dividere la nazione”. [“Storia del mondo moderno”, Cambridge University Press].
Fu una guerra terribile con più di 600.000 morti, cioè più delle vittime che gli Stati Uniti ebbero sommando tutte le altre guerre, dalla rivoluzione del 1775 in poi, fino ad arrivare ed includendo la guerra del Vietnam. Del resto, i campi di battaglia che ho visitato sembrano fatti apposta per favorire la carneficina: grandi e aperte spianate dove i due eserciti si potevano confrontare frontalmente con pochi ripari. Sono stati conservati così come erano a futura memoria del sacrificio e dell’eroismo di quei soldati, che potevano morire a migliaia nello spazio di un solo giorno. Vicino al muro di pietra della Sunken Road nei pressi di Fredericksbug ne morirono 40.000. Sul fatto che questa guerra abbia lasciato un segno indelebile nel popolo americano a me, lo ripeto, visitatore superficiale e occasionale non lascia dubbio alcuno. La traccia più evidente, e se volete anche più banale, è sicuramente il Lincoln memorial , il monumento ad Abraham Lincoln che sorge a Washington, con la sua posizione in linea retta al Parlamento, che sembra sorvegliare notte e giorno il bene più prezioso conquistato a caro prezzo in quegli anni: l’unità della nazione. La schiavitù, che era stata una delle cause della guerra, era stata abolita da Lincoln il 1 gennaio 1863, ma da allora lunga e dolorosa sarebbe stata la strada verso una reale emancipazione. Alla fine della guerra Lincoln, che era fermamente deciso a trattare gli Stati sudisti non come una terra nemica conquistata, ma come fratelli traviati e ritrovati, venne assassinato. Una immensa campagna di linciaggio morale fu scatenata contro il sud, che rimase sotto occupazione militare fino al 1877. Benché l’unità della nazione fosse stata salvata la contrapposizione fra nord e sud rimase e si è trascinata fino ai giorni nostri. Dopo la Guerra Civile, Ulysses S. Grant, (che aveva comandato le armate del Nord) divenne presidente degli Stati Uniti nel 1868 e nel 1872, mentre Robert E. Lee (che aveva comandato le armate del Sud) finì con onore i suoi anni insegnando all’università. La casa di Lee, che venne requisita durante la guerra per farne un cimitero (l’odierno cimitero di Arlington), è oggi un monumento nazionale. Jefferson Davis, invece, (il presidente dei confederati) fu gettato in prigione con l’accusa, inoltre, di avere cospirato per l’assassinio di Lincoln. I militari, in definitiva, ebbero una sorte migliore di quella che toccò ai politici. In buona sostanza la Guerra Civile rinforzò quella che era una consuetudine che cominciò con Washington: chi aveva ben servito il Paese sotto le armi era il miglior candidato per guidare la nazione.Il segno indelebile di questa guerra è evidente anche guardando la produzione cinematografica americana: uno dei primi e più grandi successi di Hollywood fu il film “Gone with the wind”, ambientato durante la guerra civile. Anche la produzione più recente non ha smesso di interessarsi al periodo e “Gangs of New York” si chiude con l’emblematica scena di una guerra civile che spazza via il terreno di confronto dei due protagonisti, benché anche questo fosse fatto di sangue e scontri tra opposte fazioni: le regole del gioco, da allora, non sarebbero state più le stesse. Io credo sia necessario, che ci piaccia o no, capire fino in fondo questa guerra per capire come gli Stati Uniti sentano la “guerra” e più in generale tutte le guerre che combattono e combatteranno. Non bisogna dimenticare che l’Unione, che poi vincerà, risultò essere l’aggressore della Confederazione che aveva dichiarato la secessione (benché il fatto scatenante della guerra fu l’attacco dei confederati a Forte Sumter). Fu quindi una guerra di aggressione che portò all’unità del paese. E’ naturale allora che in un Paese come questo la parola “guerra” evochi certamente orrore e distruzione, non disgiunti però da una certa ineluttabilità che renda la guerra stessa un passaggio obbligato per raggiungere obbiettivi di ordine superiore, che possano giustificare un tale sacrificio. E’ un retaggio storico importante e ancora molto vivo con il quale dobbiamo fare i conti ogniqualvolta ci si trovi a confronto con gli Stati Uniti su questi temi purtroppo di scottante attualità.
FONTI E APPROFONDIMENTI
La Storia, Grandi Opere di UTET Cultura, Vol. 14 “Dalla guerra fredda alla dissoluzione dell’URSS”, La Repubblica, Roma, 2004
Ennio Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali 1918-1999, Roma-Bari, Editori Laterza, 2000
La Storia, Grandi Opere di UTET Cultura, Vol. 11 “Risorgimento e rivoluzioni nazionali”, La Repubblica, Roma, 2004
Maldwyn A. Jones, Storia degli Stati Uniti, in Storia Universale del Corriere della Sera, vol. 25, Milano, 2005
Storia del mondo moderno Vol. X “Il culmine della potenza europea 1830-1870”, Cambridge University Press, 1964, Pubblicato in Italia da Garzanti , ristampa del 1997 - “The Civil War. A film by Ken Burns”, 1990, DVD by PBS Home Video year 2002
mercoledì, aprile 05, 2006
L’INIZIO DELL’INTEGRAZIONE EUROPEA
EDITORIALE
Analizziamo la situazione dell’Europa nel secondo dopoguerra e il compimento dei suoi primi passi negli Anni ’50 e ’60 verso la costruzione di un’Europa unita.
Nella seconda parte continua il racconto degli Stati Uniti visti con gli occhi di un visitatore occasionale. Buona lettura.
I FATTI
Il 9 maggio 1950 viene annunciato in Francia il piano Schuman (dal nome del ministro degli esteri francese) che porterà, il 18 aprile 1951, alla costituzione della CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio).
23 ottobre 1954: nasce l’Unione dell’Europa Occidentale (UEO): è un’alleanza militare a carattere difensivo fra Gran Bretagna, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Repubblica Federale Tedesca e Italia.
25 marzo 1957: firma dei trattati di Roma, i sei paesi della UEO (rimane esclusa la Gran Bretagna) istituiscono la Comunità europea per l’energia atomica (Euratom o CEEA) e la Comunità economica europea (CEE).
1° gennaio 1973: con l’ingresso nella CEE della Gran Bretagna, della Danimarca e dell’Irlanda nasce l’Europa dei Nove.
IL CONTESTO
La costituzione della CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio) del 1951 può essere considerato l’atto che diede avvio all’integrazione europea. Profondamente condizionata dalle contingenze della ricostruzione prima e dalla politica dei due blocchi poi, limitata sul piano politico dalle resistenze di ciò che restava della sovranità assoluta degli Stati, l’integrazione fece degli importanti progressi dai primi anni ’50 alla fine degli Anni ’70.
Il 9 maggio 1950 fu annunciata a Parigi da Robert Schuman, Ministro francese degli Affari Esteri, una proposta per “mettere l'insieme della produzione franco-tedesca di carbone e di acciaio sotto una comune Alta Autorità”. Questa proposta metteva in comune le produzioni di base e istituiva una nuova Alta Autorità le cui decisioni sarebbero state vincolanti per tutti i paesi che avessero aderito all’iniziativa francese. Veniva proposto di creare una Istituzione europea sovrannazionale cui affidare la gestione delle materie prime che erano il presupposto di qualsiasi potenza militare, il carbone e l'acciaio.
De Gasperi appoggiò subito con entusiasmo il piano Schuman e, insieme al ministro degli esteri francese e al cancelliere tedesco Konrad Adenauer, si adoperò per l’effettiva realizzazione del piano stesso.
La proposta francese fu motivata anche dal proposito di stabilite una relazione particolare fra Francia e Germania Occidentale che bilanciasse in qualche modo quella che si era costituita alla fine della guerra fra Stati Uniti e Gran Bretagna, per evitare che la Germania si avvicinasse agli Usa isolando di fatto la Francia nell’ambito della politica europea.
Gli Stati Uniti da parte loro appoggiarono qualsiasi tentativo di favorire l’integrazione sempre più stretta dei paesi che si consideravano oggetto della minaccia sovietica, e giudicarono indispensabile far partecipare a tale integrazione il più esposto dei paesi europei, la Repubblica federale di Germania.
Il 18 aprile 1951 fu approvato il testo del trattato istitutivo della CECA (Comunità europea del carbone e dell’acciaio) che, dopo il completamento dei processi di ratifica, entrò in vigore il 25 luglio 1952, con la immediata nomina a presidente dell’Alta Autorità di Jean Monnet, l’ideatore, insieme a Schuman, della proposta francese.
Sei paesi entrarono nella CECA: Francia, Germania Federale, Belgio, Olanda, Lussemburgo e Italia.
Il trattato si poneva come il primo passo verso il superamento di quelle rivalità storiche che avevano diviso l’Europa da sempre; si affermava la persuasione che fosse soltanto autodistruttivo risolvere i conflitti interni mediante il ricorso alla forza e la convinzione che tutto potesse divenire l’oggetto di negoziati. Il trattato inoltre recepiva un sentire comune, secondo il quale nulla poteva giustificare i sacrifici di nuove guerre e tutto poteva essere negoziato in modo pacifico.
Nell’ottobre del 1954 fu approvato il testo che istituiva l’Unione Europea Occidentale (UEO). Il 5 maggio 1955, dopo le ratifiche dei parlamenti nazionali, l’UEO cominciò a muovere i primi passi: l’organizzazione militare prevedeva un esercito comune, governato da un Consiglio di rappresentanti dei governi, e un parlamento con funzioni consultive. A garanzia che nessuno dei paesi membri potesse oltrepassare certe soglie di riarmo venne costituita anche un’Agenzia per il controllo degli armamenti, che avrebbe assunto le sue deliberazioni solo all’unanimità.
Il risultato, oltre a permettere il riarmo della Germania Occidentale (e la sua adesione alla NATO nel 1955), esprimeva la determinazione dei paesi europei occidentali di rafforzare i loro legami e di tenere fermo il principio dell’alleanza con gli Stati Uniti come premessa della loro politica internazionale.
Il 1° giugno 1955 l’Italia convocò a Messina una conferenza dei sei ministri degli esteri degli Stati aderenti alla CECA per rilanciare l’integrazione politica ed economica europea: fu decisa la creazione di un mercato comune sotto forma di unione doganale. Dopo due anni di lavori si giunse alla firma dei trattati di Roma: il 25 marzo 1957 venivano istituiti l’EURATOM (o Comunità europea per l’energia atomica) e la CEE.
L’EURATOM doveva contribuire a sviluppare industrie nucleari europee per l’utilizzazione dell’atomo a scopi pacifici.
La Comunità Economica Europea (CEE) aveva lo scopo di eliminare ogni barriera doganale alla circolazione delle merci e ogni limitazione alla circolazione delle persone, stabilendo al contempo una comune barriera doganale nei confronti degli Stati terzi.
Vera e propria unione economica oltre che unione doganale e mercato comune, sorse con il compito di “promuovere, mediante l'instaurazione di un mercato comune e il graduale ravvicinamento delle politiche economiche degli Stati membri, uno sviluppo armonioso delle attività economiche nell'insieme della comunità, un'espansione continua ed equilibrata, una stabilità accresciuta, un miglioramento sempre più rapido del tenore di vita e più strette relazioni tra gli Stati che a essa partecipano”.
Il rifiuto di aderire al Mercato comune da parte della Gran Bretagna fu determinato sostanzialmente dalla politica agricola, dalle clausole sociali e politiche (che sembravano ledere la sovranità degli Stati) e dalla tariffa esterna comune (dati i rapporti esistenti tra Gran Bretagna e Commonwealth).
I trattati di Roma, che entrarono in vigore il 1° gennaio 1958, prevedevano un lungo periodo di attuazione, che si articolava in numerose tappe. L'8 aprile 1965 venne firmato a Bruxelles un trattato che istituiva un consiglio unico e una commissione unica delle comunità europee. In tal modo i tre consigli dei ministri delle comunità venivano fusi in un consiglio unico e la commissione della CEE, la commissione dell'Euratom e l'alta autorità della CECA in un'unica commissione. Il consiglio unico e la commissione unica ebbero i poteri e le competenze già conferiti dai trattati alle precedenti istituzioni. Contemporaneamente si decideva di trasferire a Bruxelles la maggior parte dei servizi dell'alta autorità. (continua)
Dal 1967 gli organismi direttivi di CEE, CECA e Euratom furono così unificati, rendendo meno macchinoso il governo della Comunità Europea e dando vita alle attuali istituzioni europee: il Parlamento, la Commissione, il Consiglio dei ministri (formato dai rappresentanti degli Stati membri) e la Corte di Giustizia.
Nel 1971, dopo l’iniziale e ripetuta opposizione della Francia di De Gaulle, anche la Gran Bretagna fu ammessa nella CEE, seguita nel 1972 da Danimarca e Irlanda; l’entrata effettiva dei tre paesi avvenne il 1° gennaio 1973: era nata l’Europa dei Nove.
IL SASSO NELLO STAGNO – Ecco cosa scriveva Jean Monnet (nel novembre 1954):
“Ciò che sta per uscire in materia di carbone e acciaio nei sei paesi della nostra Comunità, deve essere proseguito sino alla conclusione: gli Stati Uniti d'Europa [...]. I nostri paesi sono divenuti troppo piccoli rispetto al mondo attuale, nel quale la scala della tecnologia moderna si misura oggi secondo la dimensione americana o russa e si misurerà domani secondo quella della Cina o dell'India”.
ATTUALITÀ
ALLE ORIGINI DEGLI STATI UNITI D’AMERICA (seconda parte)
Mount Vernon, Virginia. Una grande e antica casa di campagna da cui si gode una bella veduta del fiume Potomac. Tutt’intorno boschi e coltivazioni, giardini e piantagioni, frutto di una passione profonda e di uno spirito di innovazione dell’agricoltura non comuni. Nei bassorilievi che ornano i soffitti della casa i simboli agricoli abbondano e nella biblioteca solo libri di agricoltura e di biologia. Oltre il bosco, una stalla sperimentale e quello che resta di una piccola area per le coltivazioni più ardite e innovative. Chi poteva pensare che in quella casa avrei trovato il “trait d’union” tanto cercato tra rivoluzione americana, Illuminismo e Rivoluzione Francese, eppure era lì, appesa all’ingresso in bella evidenza, la chiave della Bastiglia donata dal marchese di Lafayette a chi abitava questa casa nel 1789: George Washington, che proprio in quell’anno fu eletto primo presidente degli Stati Uniti d’America. Il profilo di un uomo tranquillo e per nulla violento è comune anche agli altri “rivoluzionari”, facoltosi uomini d’affari o studiosi che si sentivano inglesi a tutti gli effetti, ma che quando si resero conto che la parola “libertà” per loro valeva un pochino meno che in madrepatria e che la crescita economica delle loro colonie cominciava a dare fastidio al Regno Unito, allora non esitarono a opporsi con tutta la forza che il sistema di governo loro consentiva e quando videro che ciò non era sufficiente passarono ai fatti dichiarando l’indipendenza delle colonie americane dalla madrepatria inglese nel fatidico giorno del 4 luglio 1776. Washington era stato nominato comandante in capo dell’esercito delle Colonie Unite il 15 giugno del 1775, più per motivi politici che militari. Un virginiano al comando di un esercito che era soprattutto della Nuova Inghilterra avrebbe cementato l’unità delle colonie; inoltre la scelta di un ricco piantatore conservatore avrebbe dissipato i timori di radicalismo. La guerra durò fino al 1781, ma la battaglia di Saratoga del 17 ottobre 1777 e la successiva entrata della Francia in guerra a fianco delle Colonie furono i due episodi che volsero in favore degli americani le sorti della guerra, che fu chiusa formalmente dal trattato di pace del 3 settembre 1783. In esso la Gran Bretagna riconobbe formalmente l’indipendenza americana e acconsentì che i confini degli Stati Uniti si estendessero a ovest fino al fiume Mississippi, a nord fino ai Grandi Laghi e a sud fino al 31° parallelo (confine settentrionale della Florida, che Londra cedette alla Spagna, anche essa intervenuta a fianco della Francia). Ma tornando a quella chiave appesa alla parete di Mount Vernon, quali potevano essere le radici lontane e meno lontane di un tale impeto libertario che così fieramente si manifestava nella dichiarazione di indipendenza? Certamente il secondo Trattato sul governo civile di John Locke, formulazione classica della filosofia dei diritti naturali di Aristotele e Cicerone, fu una traccia che Thomas Jefferson (estensore della dichiarazione di indipendenza) seguì con attenzione. Un’altra importante fonte, forse più indiretta ma non per questo meno significativa, fu sicuramente il corpo di leggi inglesi che andava formandosi dal medioevo e che enfatizzava i diritti degli individui piuttosto che i doveri e i poteri del regnante. Si può dire che, a differenza della giurisdizione italiana che vedeva la libertà come un diritto pubblico che consentiva ai cittadini di partecipare al governo della società, il Common Law interpretava “la libertà” come un diritto privato che consentiva al cittadino di delimitare con certezza i confini delle sue proprietà e dei suoi diritti. E da ultimo il dibattito sulla famosa frase della Dichiarazione dove si dice che “tutti gli uomini sono creati uguali” . Alcuni riducono il senso della frase all’uguaglianza di trattamento tra americani ed inglesi ma i più sostengono che Jefferson volle con questa affermazione dare ampio respiro alla Dichiarazione, un respiro di eguaglianza e di uguali condizioni sociali per tutti, un respiro che Lincoln avrebbe ripreso nel secolo successivo descrivendolo come un “principio emblematico al quale fare costantemente riferimento, verso il quale tendere sempre”. Ed ecco di seguito un brano di quella dichiarazione del 4 luglio 1776 che non mi stanco mai di leggere e di rileggere, pensando a quanta strada abbiamo fatto su questi principi e quanta ancora dobbiamo farne.
[…] We hold these Truths to be self-evident, that all Men are created equal, that they are endowed by their Creator with certain unalienable Rights, that among these are Life, Liberty and the Pursuit of Happiness – That to secure these Rights, Governments are instituted among Men, deriving their just Powers from the Consent of the Governed, that whenever any Form of Government becomes destructive of these Ends, it is the Right of the People to alter or to abolish it, and to institute new Government, laying its Foundation on such Principles, and organizing its Powers in such Form, as to them shall seem most likely to effect their Safety and Happiness […]
(la traduzione è nell’ultima pagina del n. 6, Set-Ott 2003, del bollettino).
FONTI E APPROFONDIMENTI
La Storia, Grandi Opere di UTET Cultura, Vol. 14 “Dalla guerra fredda alla dissoluzione dell’URSS”, La Repubblica, Roma, 2004
Sergio Romano, Cinquant'anni di storia mondiale. La pace e le guerre da Jalta ai giorni nostri, TEA, 1997 - Longanesi, 1995
Ennio Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali 1918-1999, Roma-Bari, Editori Laterza, 2000
A.A.V.V., Enciclopedia universale Rizzoli Larousse, Rizzoli, Milano 2002 e Enciclopedia della storia universale, De Agostini, 2000
Edward Countryman, The American Revolution, Hill and Wang, New York, 2003 (revised edition)
The declaration of independence and the Constitution of the United States, Introd by Pauline Maier, Bantam Books, New York, 1998
Richard Price, Considerazioni sull’importanza della rivoluzione Americana, Sellerio Editore, Palermo, 1996
Maldwyn A. Jones, Storia degli Stati Uniti, in Storia Universale del Corriere della Sera, vol. 25, Milano, 2005
Twin Cities Public Television, Inc., Liberty! The American Revolution, 1997, DVD by PBS Home Video year 2004
Analizziamo la situazione dell’Europa nel secondo dopoguerra e il compimento dei suoi primi passi negli Anni ’50 e ’60 verso la costruzione di un’Europa unita.
Nella seconda parte continua il racconto degli Stati Uniti visti con gli occhi di un visitatore occasionale. Buona lettura.
I FATTI
Il 9 maggio 1950 viene annunciato in Francia il piano Schuman (dal nome del ministro degli esteri francese) che porterà, il 18 aprile 1951, alla costituzione della CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio).
23 ottobre 1954: nasce l’Unione dell’Europa Occidentale (UEO): è un’alleanza militare a carattere difensivo fra Gran Bretagna, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Repubblica Federale Tedesca e Italia.
25 marzo 1957: firma dei trattati di Roma, i sei paesi della UEO (rimane esclusa la Gran Bretagna) istituiscono la Comunità europea per l’energia atomica (Euratom o CEEA) e la Comunità economica europea (CEE).
1° gennaio 1973: con l’ingresso nella CEE della Gran Bretagna, della Danimarca e dell’Irlanda nasce l’Europa dei Nove.
IL CONTESTO
La costituzione della CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio) del 1951 può essere considerato l’atto che diede avvio all’integrazione europea. Profondamente condizionata dalle contingenze della ricostruzione prima e dalla politica dei due blocchi poi, limitata sul piano politico dalle resistenze di ciò che restava della sovranità assoluta degli Stati, l’integrazione fece degli importanti progressi dai primi anni ’50 alla fine degli Anni ’70.
Il 9 maggio 1950 fu annunciata a Parigi da Robert Schuman, Ministro francese degli Affari Esteri, una proposta per “mettere l'insieme della produzione franco-tedesca di carbone e di acciaio sotto una comune Alta Autorità”. Questa proposta metteva in comune le produzioni di base e istituiva una nuova Alta Autorità le cui decisioni sarebbero state vincolanti per tutti i paesi che avessero aderito all’iniziativa francese. Veniva proposto di creare una Istituzione europea sovrannazionale cui affidare la gestione delle materie prime che erano il presupposto di qualsiasi potenza militare, il carbone e l'acciaio.
De Gasperi appoggiò subito con entusiasmo il piano Schuman e, insieme al ministro degli esteri francese e al cancelliere tedesco Konrad Adenauer, si adoperò per l’effettiva realizzazione del piano stesso.
La proposta francese fu motivata anche dal proposito di stabilite una relazione particolare fra Francia e Germania Occidentale che bilanciasse in qualche modo quella che si era costituita alla fine della guerra fra Stati Uniti e Gran Bretagna, per evitare che la Germania si avvicinasse agli Usa isolando di fatto la Francia nell’ambito della politica europea.
Gli Stati Uniti da parte loro appoggiarono qualsiasi tentativo di favorire l’integrazione sempre più stretta dei paesi che si consideravano oggetto della minaccia sovietica, e giudicarono indispensabile far partecipare a tale integrazione il più esposto dei paesi europei, la Repubblica federale di Germania.
Il 18 aprile 1951 fu approvato il testo del trattato istitutivo della CECA (Comunità europea del carbone e dell’acciaio) che, dopo il completamento dei processi di ratifica, entrò in vigore il 25 luglio 1952, con la immediata nomina a presidente dell’Alta Autorità di Jean Monnet, l’ideatore, insieme a Schuman, della proposta francese.
Sei paesi entrarono nella CECA: Francia, Germania Federale, Belgio, Olanda, Lussemburgo e Italia.
Il trattato si poneva come il primo passo verso il superamento di quelle rivalità storiche che avevano diviso l’Europa da sempre; si affermava la persuasione che fosse soltanto autodistruttivo risolvere i conflitti interni mediante il ricorso alla forza e la convinzione che tutto potesse divenire l’oggetto di negoziati. Il trattato inoltre recepiva un sentire comune, secondo il quale nulla poteva giustificare i sacrifici di nuove guerre e tutto poteva essere negoziato in modo pacifico.
Nell’ottobre del 1954 fu approvato il testo che istituiva l’Unione Europea Occidentale (UEO). Il 5 maggio 1955, dopo le ratifiche dei parlamenti nazionali, l’UEO cominciò a muovere i primi passi: l’organizzazione militare prevedeva un esercito comune, governato da un Consiglio di rappresentanti dei governi, e un parlamento con funzioni consultive. A garanzia che nessuno dei paesi membri potesse oltrepassare certe soglie di riarmo venne costituita anche un’Agenzia per il controllo degli armamenti, che avrebbe assunto le sue deliberazioni solo all’unanimità.
Il risultato, oltre a permettere il riarmo della Germania Occidentale (e la sua adesione alla NATO nel 1955), esprimeva la determinazione dei paesi europei occidentali di rafforzare i loro legami e di tenere fermo il principio dell’alleanza con gli Stati Uniti come premessa della loro politica internazionale.
Il 1° giugno 1955 l’Italia convocò a Messina una conferenza dei sei ministri degli esteri degli Stati aderenti alla CECA per rilanciare l’integrazione politica ed economica europea: fu decisa la creazione di un mercato comune sotto forma di unione doganale. Dopo due anni di lavori si giunse alla firma dei trattati di Roma: il 25 marzo 1957 venivano istituiti l’EURATOM (o Comunità europea per l’energia atomica) e la CEE.
L’EURATOM doveva contribuire a sviluppare industrie nucleari europee per l’utilizzazione dell’atomo a scopi pacifici.
La Comunità Economica Europea (CEE) aveva lo scopo di eliminare ogni barriera doganale alla circolazione delle merci e ogni limitazione alla circolazione delle persone, stabilendo al contempo una comune barriera doganale nei confronti degli Stati terzi.
Vera e propria unione economica oltre che unione doganale e mercato comune, sorse con il compito di “promuovere, mediante l'instaurazione di un mercato comune e il graduale ravvicinamento delle politiche economiche degli Stati membri, uno sviluppo armonioso delle attività economiche nell'insieme della comunità, un'espansione continua ed equilibrata, una stabilità accresciuta, un miglioramento sempre più rapido del tenore di vita e più strette relazioni tra gli Stati che a essa partecipano”.
Il rifiuto di aderire al Mercato comune da parte della Gran Bretagna fu determinato sostanzialmente dalla politica agricola, dalle clausole sociali e politiche (che sembravano ledere la sovranità degli Stati) e dalla tariffa esterna comune (dati i rapporti esistenti tra Gran Bretagna e Commonwealth).
I trattati di Roma, che entrarono in vigore il 1° gennaio 1958, prevedevano un lungo periodo di attuazione, che si articolava in numerose tappe. L'8 aprile 1965 venne firmato a Bruxelles un trattato che istituiva un consiglio unico e una commissione unica delle comunità europee. In tal modo i tre consigli dei ministri delle comunità venivano fusi in un consiglio unico e la commissione della CEE, la commissione dell'Euratom e l'alta autorità della CECA in un'unica commissione. Il consiglio unico e la commissione unica ebbero i poteri e le competenze già conferiti dai trattati alle precedenti istituzioni. Contemporaneamente si decideva di trasferire a Bruxelles la maggior parte dei servizi dell'alta autorità. (continua)
Dal 1967 gli organismi direttivi di CEE, CECA e Euratom furono così unificati, rendendo meno macchinoso il governo della Comunità Europea e dando vita alle attuali istituzioni europee: il Parlamento, la Commissione, il Consiglio dei ministri (formato dai rappresentanti degli Stati membri) e la Corte di Giustizia.
Nel 1971, dopo l’iniziale e ripetuta opposizione della Francia di De Gaulle, anche la Gran Bretagna fu ammessa nella CEE, seguita nel 1972 da Danimarca e Irlanda; l’entrata effettiva dei tre paesi avvenne il 1° gennaio 1973: era nata l’Europa dei Nove.
IL SASSO NELLO STAGNO – Ecco cosa scriveva Jean Monnet (nel novembre 1954):
“Ciò che sta per uscire in materia di carbone e acciaio nei sei paesi della nostra Comunità, deve essere proseguito sino alla conclusione: gli Stati Uniti d'Europa [...]. I nostri paesi sono divenuti troppo piccoli rispetto al mondo attuale, nel quale la scala della tecnologia moderna si misura oggi secondo la dimensione americana o russa e si misurerà domani secondo quella della Cina o dell'India”.
ATTUALITÀ
ALLE ORIGINI DEGLI STATI UNITI D’AMERICA (seconda parte)
Mount Vernon, Virginia. Una grande e antica casa di campagna da cui si gode una bella veduta del fiume Potomac. Tutt’intorno boschi e coltivazioni, giardini e piantagioni, frutto di una passione profonda e di uno spirito di innovazione dell’agricoltura non comuni. Nei bassorilievi che ornano i soffitti della casa i simboli agricoli abbondano e nella biblioteca solo libri di agricoltura e di biologia. Oltre il bosco, una stalla sperimentale e quello che resta di una piccola area per le coltivazioni più ardite e innovative. Chi poteva pensare che in quella casa avrei trovato il “trait d’union” tanto cercato tra rivoluzione americana, Illuminismo e Rivoluzione Francese, eppure era lì, appesa all’ingresso in bella evidenza, la chiave della Bastiglia donata dal marchese di Lafayette a chi abitava questa casa nel 1789: George Washington, che proprio in quell’anno fu eletto primo presidente degli Stati Uniti d’America. Il profilo di un uomo tranquillo e per nulla violento è comune anche agli altri “rivoluzionari”, facoltosi uomini d’affari o studiosi che si sentivano inglesi a tutti gli effetti, ma che quando si resero conto che la parola “libertà” per loro valeva un pochino meno che in madrepatria e che la crescita economica delle loro colonie cominciava a dare fastidio al Regno Unito, allora non esitarono a opporsi con tutta la forza che il sistema di governo loro consentiva e quando videro che ciò non era sufficiente passarono ai fatti dichiarando l’indipendenza delle colonie americane dalla madrepatria inglese nel fatidico giorno del 4 luglio 1776. Washington era stato nominato comandante in capo dell’esercito delle Colonie Unite il 15 giugno del 1775, più per motivi politici che militari. Un virginiano al comando di un esercito che era soprattutto della Nuova Inghilterra avrebbe cementato l’unità delle colonie; inoltre la scelta di un ricco piantatore conservatore avrebbe dissipato i timori di radicalismo. La guerra durò fino al 1781, ma la battaglia di Saratoga del 17 ottobre 1777 e la successiva entrata della Francia in guerra a fianco delle Colonie furono i due episodi che volsero in favore degli americani le sorti della guerra, che fu chiusa formalmente dal trattato di pace del 3 settembre 1783. In esso la Gran Bretagna riconobbe formalmente l’indipendenza americana e acconsentì che i confini degli Stati Uniti si estendessero a ovest fino al fiume Mississippi, a nord fino ai Grandi Laghi e a sud fino al 31° parallelo (confine settentrionale della Florida, che Londra cedette alla Spagna, anche essa intervenuta a fianco della Francia). Ma tornando a quella chiave appesa alla parete di Mount Vernon, quali potevano essere le radici lontane e meno lontane di un tale impeto libertario che così fieramente si manifestava nella dichiarazione di indipendenza? Certamente il secondo Trattato sul governo civile di John Locke, formulazione classica della filosofia dei diritti naturali di Aristotele e Cicerone, fu una traccia che Thomas Jefferson (estensore della dichiarazione di indipendenza) seguì con attenzione. Un’altra importante fonte, forse più indiretta ma non per questo meno significativa, fu sicuramente il corpo di leggi inglesi che andava formandosi dal medioevo e che enfatizzava i diritti degli individui piuttosto che i doveri e i poteri del regnante. Si può dire che, a differenza della giurisdizione italiana che vedeva la libertà come un diritto pubblico che consentiva ai cittadini di partecipare al governo della società, il Common Law interpretava “la libertà” come un diritto privato che consentiva al cittadino di delimitare con certezza i confini delle sue proprietà e dei suoi diritti. E da ultimo il dibattito sulla famosa frase della Dichiarazione dove si dice che “tutti gli uomini sono creati uguali” . Alcuni riducono il senso della frase all’uguaglianza di trattamento tra americani ed inglesi ma i più sostengono che Jefferson volle con questa affermazione dare ampio respiro alla Dichiarazione, un respiro di eguaglianza e di uguali condizioni sociali per tutti, un respiro che Lincoln avrebbe ripreso nel secolo successivo descrivendolo come un “principio emblematico al quale fare costantemente riferimento, verso il quale tendere sempre”. Ed ecco di seguito un brano di quella dichiarazione del 4 luglio 1776 che non mi stanco mai di leggere e di rileggere, pensando a quanta strada abbiamo fatto su questi principi e quanta ancora dobbiamo farne.
[…] We hold these Truths to be self-evident, that all Men are created equal, that they are endowed by their Creator with certain unalienable Rights, that among these are Life, Liberty and the Pursuit of Happiness – That to secure these Rights, Governments are instituted among Men, deriving their just Powers from the Consent of the Governed, that whenever any Form of Government becomes destructive of these Ends, it is the Right of the People to alter or to abolish it, and to institute new Government, laying its Foundation on such Principles, and organizing its Powers in such Form, as to them shall seem most likely to effect their Safety and Happiness […]
(la traduzione è nell’ultima pagina del n. 6, Set-Ott 2003, del bollettino).
FONTI E APPROFONDIMENTI
La Storia, Grandi Opere di UTET Cultura, Vol. 14 “Dalla guerra fredda alla dissoluzione dell’URSS”, La Repubblica, Roma, 2004
Sergio Romano, Cinquant'anni di storia mondiale. La pace e le guerre da Jalta ai giorni nostri, TEA, 1997 - Longanesi, 1995
Ennio Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali 1918-1999, Roma-Bari, Editori Laterza, 2000
A.A.V.V., Enciclopedia universale Rizzoli Larousse, Rizzoli, Milano 2002 e Enciclopedia della storia universale, De Agostini, 2000
Edward Countryman, The American Revolution, Hill and Wang, New York, 2003 (revised edition)
The declaration of independence and the Constitution of the United States, Introd by Pauline Maier, Bantam Books, New York, 1998
Richard Price, Considerazioni sull’importanza della rivoluzione Americana, Sellerio Editore, Palermo, 1996
Maldwyn A. Jones, Storia degli Stati Uniti, in Storia Universale del Corriere della Sera, vol. 25, Milano, 2005
Twin Cities Public Television, Inc., Liberty! The American Revolution, 1997, DVD by PBS Home Video year 2004
I DUALISMI DELLO SVILUPPO ECONOMICO ITALIANO
EDITORIALE
Concludiamo la breve esposizione sullo sviluppo dell'economia italiana nei primi anni del secondo dopoguerra evidenziando i principali problemi emersi e non risolti di quegli anni.
Nella seconda parte, nell’occasione della festa del 2 giugno (a ricordo del 2 giugno 1946, data del referendum istituzionale per la scelta fra monarchia e repubblica), descriviamo il simbolo della Repubblica Italiana.
Buona lettura.
I FATTI
Miracolo economico. Espressione usata per indicare l’eccezionale crescita dell’economia italiana, in particolare fra il 1958 e il 1963.
Il tasso di crescita medio del PIL si assestò intorno al 6% annuo e si ebbero incrementi senza precedenti nel livello di occupazione, dei consumi interni e delle esportazioni.
Con il 1966 l’economia tornò a raggiungere un alto livello di sviluppo (5,6% contro il 3,6 del 1965 e il 2,9% del 1964).
L’anno successivo il tasso di sviluppo salì al 6,8%, raggiungendo il livello degli anni del “miracolo”.
IL CONTESTO
L’economia italiana nel secondo dopoguerra subì un’accelerazione notevole, soprattutto nel decennio 1955-1965. Una transizione così rapida da un’economia semiautarchica a un’economia aperta, nonché ai modelli di consumo di una società di massa, comportò una serie di squilibri e di sfasature, per i quali si è parlato di uno sviluppo economico dualistico.
Un primo forte ed evidente dualismo era quello relativo alla differenza tra Nord e Sud. Le prime evidenti tracce di questo divario sono già presenti all’atto dell’unità dell’Italia nel 1861. Il settore dell’agricoltura, a quel tempo, già segnava una notevole differenza: vaste zone di territorio nel meridione erano ancora in attesa di bonifica, molti beni comunali continuavano a essere oggetto di forme indiscriminate di sfruttamento collettivo, molti erano ancora i tratti di pianura incolti e infestati dalla malaria. Il regime fondiario, di fatto, impediva nel Sud il progredire dell’agricoltura; gli affittuari dei grandi feudi, arricchitisi con la speculazione sul grano e con l’usura tendevano a spremere coloni e braccianti senza apportare alcun rinnovamento ai metodi di coltivazione. D’altro canto il contratto di affittanza delle terre era regolato in modo tale da non indurre l’affittuario a migliorare il fondo ma piuttosto a depauperarlo. Nello stesso periodo anche nelle infrastrutture il Sud denunciava gravi carenze ed inoltre nessuna grande città meridionale aveva alle spalle un entroterra paragonabile, per ampiezza di scambi e per gamma di attività produttive e terziarie a quelli di Genova, Milano o Venezia. Inoltre il Nord contava su un migliore ordinamento dei catasti e del credito, una rete più estesa di trasporti e alcune importanti opere di trasformazione fondiaria dovute tanto all’iniziativa dello Stato e dei Privati, quanto all’apporto di investitori stranieri. Nel secondo dopoguerra tale situazione si era aggravata e anche gli interventi statali, puntando sulle grandi industrie di base petrolchimiche e siderurgiche, venivano assorbiti da pochi grandi aziende che non potevano dar luogo ad un’industrializzazione territorialmente diffusa.
Un secondo fenomeno di carattere dualistico stava nell’assoluta prevalenza dei consumi privati su quelli pubblici. In sostanza, nonostante i gravi problemi che già affliggevano le strutture sociali e le amministrazioni locali (per lo sviluppo imponente assunto dall’immigrazione e l’espansione convulsa delle aree metropolitane), non era avvenuto un adeguamento dei servizi d’interesse collettivo alla crescita della domanda. Malgrado il varo di una riforma tributaria legata al nome di Vanoni (1951), non si era posta mano all’attuazione di efficaci metodi di accertamento sulla veridicità delle dichiarazioni dei contribuenti, né di sanzioni adeguate. Assai ampia era rimasta la fascia dell’evasione fiscale e contributiva. Di fatto l’incidenza delle imposte dirette sul reddito e sul patrimonio, al totale delle entrate tributarie, non superò il 24% fra il 1949 e il 1963, ossia una quota addirittura più bassa del periodo giolittiano; allo Stato venne così a mancare un consistente gettito tributario, mentre la finanza pubblica si trovò a registrare una continua crescita delle spese correnti
Un ultimo dualismo riguardava il divario tra i diversi settori industriali. I settori metallurgico, meccanico, chimico e dei trasporti conobbero una notevole espansione tra il 1951 e il 1962, con cospicui investimenti, tasso di innovazione e di esportazione; i settori manifatturieri più tradizionali invece, caratterizzati da più bassi livelli di produttività o di attrezzamento tecnico, registrarono un tasso di sviluppo inferiore; inoltre, data la tendenza del settore più avanzato a privilegiare per esigenze competitive gli investimenti destinati all’aumento della produttività attraverso il rinnovamento degli impianti e non mediante l’aumento della manodopera, la maggior parte dei disoccupati e di quanti erano alla ricerca di un primo impiego finì per riversarsi verso i campi di attività meno qualificati o per trovare sfogo nella pubblica amministrazione. Anche lo scarso dinamismo o l’arretratezza di una parte consistente del settore agricolo ebbero il loro peso. Circa l’80% della superficie coltivata era distribuita fra due milioni e mezzo di unità aziendali, di cui due milioni con dimensioni inferiori ai 5 ettari. Da aggiungere poi che le terre più fertili riguardavano poco più di un terzo della superficie coltivata ed erano prevalentemente concentrate in Val Padana. La meccanizzazione era proceduta a rilento e scarsa applicazione avevano conosciuto i nuovi sistemi di gestione che combinavano la zootecnica e l’industria alimentare. In realtà, per rendere più efficiente e competitiva la nostra agricoltura, sarebbe stato necessario, da un lato, promuovere la più ampia diffusione possibile di sistemi associativi e cooperativi; dall’altro, ripartire meglio sia l’erogazione del credito agricolo che i servizi di assistenza tecnica. Le scarse potenzialità del settore agricolo comportarono un aumento dei prezzi e aprirono larghe falle nei conti della bilancia commerciale. Anche per questo motivo, oltre che per le strozzature esistenti nell’offerta di abitazioni e di servizi, cominciarono a venire in piena luce gli squilibri e gli elementi di fragilità che di lì a poco tempo avrebbero segnato la fine degli anni del “miracolo economico”.
ATTUALITÀ
IL SIMBOLO DELLA REPUBBLICA
L'emblema della Repubblica è una ruota dentata con stella a cinque punte, circondata dai due rami di ulivo e di quercia annodati da un cartiglio recante la scritta: Repubblica Italiana.
La scelta del bozzetto avvenne dopo una procedura rivelatasi più complessa del previsto. La speciale Commissione costituita presso l'Assemblea Costituente con l'incarico di esaminare i progetti inviati dalla Presidenza del Consiglio a seguito del concorso indetto con decreto del Presidente del Consiglio del 27 ottobre 1946 ritenne, infatti, tali progetti non "idonei allo scopo". Fu, quindi, indetto un nuovo concorso. La Commissione propose all'unanimità il bozzetto di Paolo Paschetto e l'Assemblea Costituente approvò tale proposta.
Il primo concorso
Il concorso nazionale è aperto a tutti, basato su poche tracce: esclusione rigorosa dei simboli di partito, inserimento della stella d'Italia, "ispirazione dal senso della terra e dei comuni". Ai primi cinque classificati sarebbe andato un premio di 10.000 lire (circa 250 euro di oggi).
Al concorso rispondono 341 candidati, con 637 disegni in bianco e nero. I cinque vincitori vengono invitati a preparare nuovi bozzetti con un tema imposto dalla Commissione: "una cinta turrita che abbia forma di corona", circondata da una ghirlanda di fronde della flora italiana. In basso, la rappresentazione del mare, in alto, la stella d'Italia d'oro; infine, le parole UNITÀ e LIBERTÀ. La scelta cadde sul bozzetto del pittore Paolo Paschetto (Torre Pellice, Torino 1885 – 1963), al quale andarono ulteriori 50.000 lire e l'incarico di preparare il disegno definitivo, che la Commissione trasmise al Governo per l'approvazione.
Il secondo concorso
L'emblema non piacque (qualcuno lo definì addirittura "tinozza") e fu perciò nominata una nuova Commissione che bandì un secondo concorso, di cui però non rimane traccia negli archivi.
L'esame di alcune lettere farebbe pensare che l'orientamento fosse di privilegiare un simbolo legato all'idea del lavoro. Anche questa volta risultò vincitore Paolo Paschetto.
La proposta approdò all'Assemblea Costituente dove, con non pochi contrasti, fu approvata nella seduta del 31 gennaio 1948.
Il 5 maggio il Presidente della Repubblica Enrico De Nicola firma il decreto legislativo n. 535, che consegna all'Italia il suo simbolo.
La lettura dell'emblema
L'emblema è caratterizzato da tre elementi: la stella, la ruota dentata, i rami di ulivo e di quercia.
La stella è sempre stata associata alla personificazione dell'Italia. Così fu rappresentata nell'iconografia del Risorgimento e così comparve, fino al 1890, nel grande stemma del Regno unitario (il famoso stellone); la stella caratterizzò, poi, la prima onorificenza repubblicana della ricostruzione, la Stella della Solidarietà Italiana e ancora oggi indica l'appartenenza alle Forze Armate. La ruota dentata d'acciaio, simbolo dell'attività lavorativa, traduce il primo articolo della Carta Costituzionale: "L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro". Il ramo di ulivo simboleggia la volontà di pace della nazione, sia nel senso della concordia interna che della fratellanza internazionale; la quercia incarna la forza e la dignità del popolo italiano. Entrambi, poi, sono espressione delle specie più tipiche del nostro patrimonio arboreo.
Sabato 2 aprile si è concluso il pontificato di Giovanni Paolo II.
Karol Wojtyla è stato eletto Papa il 16 ottobre 1978.
“Oggi, sabato 2 aprile, alle ore 21.37
il Signore ha chiamato a Sé
IL SANTO PADRE
GIOVANNI PAOLO II
Ci hai lasciati, Padre Santo.
Ti sei consumato per noi.
In quest'ora - per Te gloriosa, per noi
dolente - ci sentiamo abbandonati.
Ma Tu prendici per mano e guidaci
con quella Tua Mano che in questi mesi
si è fatta in Te anche parola.
Grazie, Padre Santo!”
(L’Osservatore Romano, edizione straordinaria della notte del 2 aprile).
“Quante volte, il Papa ha ripetuto in questi 26 anni che i mutui rapporti fra gli uomini e fra i popoli non si possono basare solo sulla giustizia, ma debbono essere perfezionati dall’amore misericordioso, che è tipico del messaggio cristiano.
Giovanni Paolo II, anzi, Giovanni Paolo il Grande divenne così il cantore della civiltà dell’amore, vedendo in tale termine una delle definizioni più belle della “civiltà cristiana”. Sì, la civiltà cristiana è civiltà dell’amore, a differenza radicale di quelle civiltà dell’odio che furono proposte dal nazismo e dal comunismo.” (Card. Angelo Sodano, omelia della Concelebrazione eucaristica in suffragio, domenica 3 aprile)
“All’umanità, che talora sembra smarrita e dominata dal potere del male, dell’egoismo e della paura, il Signore risorto offre in dono il suo amore che perdona, riconcilia e riapre l’animo alla speranza. E’ amore che converte i cuori e dona la pace. Quanto bisogno ha il mondo di comprendere e di accogliere la Divina Misericordia!”
(messaggio preparato da Giovanni Paolo II per la seconda domenica di Pasqua, 3 aprile, solennità della Divina Misericordia)
Mercoledì 19 aprile Joseph Ratzinger è stato eletto Papa, con il nome di Benedetto XVI.
FONTI E APPROFONDIMENTI
Le imprese industriali nel processo di sviluppo (1953-1975) di Giovanni Bruno, in “Storia dell’Italia repubblicana”, Vol. II - Tomo primo, Torino, Einaudi, 1994 e Valerio Castronovo, Storia economica d’Italia, Torino, Einaudi, 1995
L’economia italiana tra la fine della seconda guerra mondiale e il “secondo miracolo economico” (1945-58) di Giorgio Mori, in “Storia dell’Italia repubblicana”, Vol. I, Torino, Einaudi, 1994
Per l’attualità, http://www.quirinale.it/simboli/emblema/emblema-aa.htm
Concludiamo la breve esposizione sullo sviluppo dell'economia italiana nei primi anni del secondo dopoguerra evidenziando i principali problemi emersi e non risolti di quegli anni.
Nella seconda parte, nell’occasione della festa del 2 giugno (a ricordo del 2 giugno 1946, data del referendum istituzionale per la scelta fra monarchia e repubblica), descriviamo il simbolo della Repubblica Italiana.
Buona lettura.
I FATTI
Miracolo economico. Espressione usata per indicare l’eccezionale crescita dell’economia italiana, in particolare fra il 1958 e il 1963.
Il tasso di crescita medio del PIL si assestò intorno al 6% annuo e si ebbero incrementi senza precedenti nel livello di occupazione, dei consumi interni e delle esportazioni.
Con il 1966 l’economia tornò a raggiungere un alto livello di sviluppo (5,6% contro il 3,6 del 1965 e il 2,9% del 1964).
L’anno successivo il tasso di sviluppo salì al 6,8%, raggiungendo il livello degli anni del “miracolo”.
IL CONTESTO
L’economia italiana nel secondo dopoguerra subì un’accelerazione notevole, soprattutto nel decennio 1955-1965. Una transizione così rapida da un’economia semiautarchica a un’economia aperta, nonché ai modelli di consumo di una società di massa, comportò una serie di squilibri e di sfasature, per i quali si è parlato di uno sviluppo economico dualistico.
Un primo forte ed evidente dualismo era quello relativo alla differenza tra Nord e Sud. Le prime evidenti tracce di questo divario sono già presenti all’atto dell’unità dell’Italia nel 1861. Il settore dell’agricoltura, a quel tempo, già segnava una notevole differenza: vaste zone di territorio nel meridione erano ancora in attesa di bonifica, molti beni comunali continuavano a essere oggetto di forme indiscriminate di sfruttamento collettivo, molti erano ancora i tratti di pianura incolti e infestati dalla malaria. Il regime fondiario, di fatto, impediva nel Sud il progredire dell’agricoltura; gli affittuari dei grandi feudi, arricchitisi con la speculazione sul grano e con l’usura tendevano a spremere coloni e braccianti senza apportare alcun rinnovamento ai metodi di coltivazione. D’altro canto il contratto di affittanza delle terre era regolato in modo tale da non indurre l’affittuario a migliorare il fondo ma piuttosto a depauperarlo. Nello stesso periodo anche nelle infrastrutture il Sud denunciava gravi carenze ed inoltre nessuna grande città meridionale aveva alle spalle un entroterra paragonabile, per ampiezza di scambi e per gamma di attività produttive e terziarie a quelli di Genova, Milano o Venezia. Inoltre il Nord contava su un migliore ordinamento dei catasti e del credito, una rete più estesa di trasporti e alcune importanti opere di trasformazione fondiaria dovute tanto all’iniziativa dello Stato e dei Privati, quanto all’apporto di investitori stranieri. Nel secondo dopoguerra tale situazione si era aggravata e anche gli interventi statali, puntando sulle grandi industrie di base petrolchimiche e siderurgiche, venivano assorbiti da pochi grandi aziende che non potevano dar luogo ad un’industrializzazione territorialmente diffusa.
Un secondo fenomeno di carattere dualistico stava nell’assoluta prevalenza dei consumi privati su quelli pubblici. In sostanza, nonostante i gravi problemi che già affliggevano le strutture sociali e le amministrazioni locali (per lo sviluppo imponente assunto dall’immigrazione e l’espansione convulsa delle aree metropolitane), non era avvenuto un adeguamento dei servizi d’interesse collettivo alla crescita della domanda. Malgrado il varo di una riforma tributaria legata al nome di Vanoni (1951), non si era posta mano all’attuazione di efficaci metodi di accertamento sulla veridicità delle dichiarazioni dei contribuenti, né di sanzioni adeguate. Assai ampia era rimasta la fascia dell’evasione fiscale e contributiva. Di fatto l’incidenza delle imposte dirette sul reddito e sul patrimonio, al totale delle entrate tributarie, non superò il 24% fra il 1949 e il 1963, ossia una quota addirittura più bassa del periodo giolittiano; allo Stato venne così a mancare un consistente gettito tributario, mentre la finanza pubblica si trovò a registrare una continua crescita delle spese correnti
Un ultimo dualismo riguardava il divario tra i diversi settori industriali. I settori metallurgico, meccanico, chimico e dei trasporti conobbero una notevole espansione tra il 1951 e il 1962, con cospicui investimenti, tasso di innovazione e di esportazione; i settori manifatturieri più tradizionali invece, caratterizzati da più bassi livelli di produttività o di attrezzamento tecnico, registrarono un tasso di sviluppo inferiore; inoltre, data la tendenza del settore più avanzato a privilegiare per esigenze competitive gli investimenti destinati all’aumento della produttività attraverso il rinnovamento degli impianti e non mediante l’aumento della manodopera, la maggior parte dei disoccupati e di quanti erano alla ricerca di un primo impiego finì per riversarsi verso i campi di attività meno qualificati o per trovare sfogo nella pubblica amministrazione. Anche lo scarso dinamismo o l’arretratezza di una parte consistente del settore agricolo ebbero il loro peso. Circa l’80% della superficie coltivata era distribuita fra due milioni e mezzo di unità aziendali, di cui due milioni con dimensioni inferiori ai 5 ettari. Da aggiungere poi che le terre più fertili riguardavano poco più di un terzo della superficie coltivata ed erano prevalentemente concentrate in Val Padana. La meccanizzazione era proceduta a rilento e scarsa applicazione avevano conosciuto i nuovi sistemi di gestione che combinavano la zootecnica e l’industria alimentare. In realtà, per rendere più efficiente e competitiva la nostra agricoltura, sarebbe stato necessario, da un lato, promuovere la più ampia diffusione possibile di sistemi associativi e cooperativi; dall’altro, ripartire meglio sia l’erogazione del credito agricolo che i servizi di assistenza tecnica. Le scarse potenzialità del settore agricolo comportarono un aumento dei prezzi e aprirono larghe falle nei conti della bilancia commerciale. Anche per questo motivo, oltre che per le strozzature esistenti nell’offerta di abitazioni e di servizi, cominciarono a venire in piena luce gli squilibri e gli elementi di fragilità che di lì a poco tempo avrebbero segnato la fine degli anni del “miracolo economico”.
ATTUALITÀ
IL SIMBOLO DELLA REPUBBLICA
L'emblema della Repubblica è una ruota dentata con stella a cinque punte, circondata dai due rami di ulivo e di quercia annodati da un cartiglio recante la scritta: Repubblica Italiana.
La scelta del bozzetto avvenne dopo una procedura rivelatasi più complessa del previsto. La speciale Commissione costituita presso l'Assemblea Costituente con l'incarico di esaminare i progetti inviati dalla Presidenza del Consiglio a seguito del concorso indetto con decreto del Presidente del Consiglio del 27 ottobre 1946 ritenne, infatti, tali progetti non "idonei allo scopo". Fu, quindi, indetto un nuovo concorso. La Commissione propose all'unanimità il bozzetto di Paolo Paschetto e l'Assemblea Costituente approvò tale proposta.
Il primo concorso
Il concorso nazionale è aperto a tutti, basato su poche tracce: esclusione rigorosa dei simboli di partito, inserimento della stella d'Italia, "ispirazione dal senso della terra e dei comuni". Ai primi cinque classificati sarebbe andato un premio di 10.000 lire (circa 250 euro di oggi).
Al concorso rispondono 341 candidati, con 637 disegni in bianco e nero. I cinque vincitori vengono invitati a preparare nuovi bozzetti con un tema imposto dalla Commissione: "una cinta turrita che abbia forma di corona", circondata da una ghirlanda di fronde della flora italiana. In basso, la rappresentazione del mare, in alto, la stella d'Italia d'oro; infine, le parole UNITÀ e LIBERTÀ. La scelta cadde sul bozzetto del pittore Paolo Paschetto (Torre Pellice, Torino 1885 – 1963), al quale andarono ulteriori 50.000 lire e l'incarico di preparare il disegno definitivo, che la Commissione trasmise al Governo per l'approvazione.
Il secondo concorso
L'emblema non piacque (qualcuno lo definì addirittura "tinozza") e fu perciò nominata una nuova Commissione che bandì un secondo concorso, di cui però non rimane traccia negli archivi.
L'esame di alcune lettere farebbe pensare che l'orientamento fosse di privilegiare un simbolo legato all'idea del lavoro. Anche questa volta risultò vincitore Paolo Paschetto.
La proposta approdò all'Assemblea Costituente dove, con non pochi contrasti, fu approvata nella seduta del 31 gennaio 1948.
Il 5 maggio il Presidente della Repubblica Enrico De Nicola firma il decreto legislativo n. 535, che consegna all'Italia il suo simbolo.
La lettura dell'emblema
L'emblema è caratterizzato da tre elementi: la stella, la ruota dentata, i rami di ulivo e di quercia.
La stella è sempre stata associata alla personificazione dell'Italia. Così fu rappresentata nell'iconografia del Risorgimento e così comparve, fino al 1890, nel grande stemma del Regno unitario (il famoso stellone); la stella caratterizzò, poi, la prima onorificenza repubblicana della ricostruzione, la Stella della Solidarietà Italiana e ancora oggi indica l'appartenenza alle Forze Armate. La ruota dentata d'acciaio, simbolo dell'attività lavorativa, traduce il primo articolo della Carta Costituzionale: "L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro". Il ramo di ulivo simboleggia la volontà di pace della nazione, sia nel senso della concordia interna che della fratellanza internazionale; la quercia incarna la forza e la dignità del popolo italiano. Entrambi, poi, sono espressione delle specie più tipiche del nostro patrimonio arboreo.
Sabato 2 aprile si è concluso il pontificato di Giovanni Paolo II.
Karol Wojtyla è stato eletto Papa il 16 ottobre 1978.
“Oggi, sabato 2 aprile, alle ore 21.37
il Signore ha chiamato a Sé
IL SANTO PADRE
GIOVANNI PAOLO II
Ci hai lasciati, Padre Santo.
Ti sei consumato per noi.
In quest'ora - per Te gloriosa, per noi
dolente - ci sentiamo abbandonati.
Ma Tu prendici per mano e guidaci
con quella Tua Mano che in questi mesi
si è fatta in Te anche parola.
Grazie, Padre Santo!”
(L’Osservatore Romano, edizione straordinaria della notte del 2 aprile).
“Quante volte, il Papa ha ripetuto in questi 26 anni che i mutui rapporti fra gli uomini e fra i popoli non si possono basare solo sulla giustizia, ma debbono essere perfezionati dall’amore misericordioso, che è tipico del messaggio cristiano.
Giovanni Paolo II, anzi, Giovanni Paolo il Grande divenne così il cantore della civiltà dell’amore, vedendo in tale termine una delle definizioni più belle della “civiltà cristiana”. Sì, la civiltà cristiana è civiltà dell’amore, a differenza radicale di quelle civiltà dell’odio che furono proposte dal nazismo e dal comunismo.” (Card. Angelo Sodano, omelia della Concelebrazione eucaristica in suffragio, domenica 3 aprile)
“All’umanità, che talora sembra smarrita e dominata dal potere del male, dell’egoismo e della paura, il Signore risorto offre in dono il suo amore che perdona, riconcilia e riapre l’animo alla speranza. E’ amore che converte i cuori e dona la pace. Quanto bisogno ha il mondo di comprendere e di accogliere la Divina Misericordia!”
(messaggio preparato da Giovanni Paolo II per la seconda domenica di Pasqua, 3 aprile, solennità della Divina Misericordia)
Mercoledì 19 aprile Joseph Ratzinger è stato eletto Papa, con il nome di Benedetto XVI.
FONTI E APPROFONDIMENTI
Le imprese industriali nel processo di sviluppo (1953-1975) di Giovanni Bruno, in “Storia dell’Italia repubblicana”, Vol. II - Tomo primo, Torino, Einaudi, 1994 e Valerio Castronovo, Storia economica d’Italia, Torino, Einaudi, 1995
L’economia italiana tra la fine della seconda guerra mondiale e il “secondo miracolo economico” (1945-58) di Giorgio Mori, in “Storia dell’Italia repubblicana”, Vol. I, Torino, Einaudi, 1994
Per l’attualità, http://www.quirinale.it/simboli/emblema/emblema-aa.htm
L’INTERVENTO DELLO STATO NELL’ECONOMIA ITALIANA
EDITORIALE
Continuiamo a parlare dell'economia italiana nei primi anni del secondo dopoguerra accennando all’IRI e all’intervento dello Stato nel sistema economico italiano.
Nella seconda parte, prendendo spunto dalle elezioni svoltesi in Iraq a fine gennaio, riportiamo alcuni brani dell’articolo dello storico inglese Robert Conquest che tratta del problema dell’esportazione della democrazia al di fuori del mondo occidentale.
Buona lettura.
I FATTI
Nell’estate del 1947 l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale), presieduto fino ad allora dall’avvocato Giuseppe Paratore – in base al decreto del 19 aprile 1946 che aveva concluso la gestione commissariale di Piccardi e ricondotto l’Istituto sotto la responsabilità del Comitato Interministeriale per la Ricostru-zione (CIR) –, è affidato ad un commissario (Giuseppe Longo Imbriani, già direttore della Banca Nazionale del Lavoro) con il mandato di elaborare e proporre una nuova sistemazione dell’istituto.
Sulla base della documentazione preparata da Longo Imbriani, il Governo incarica il ministro senza portafoglio Togni e il ministro dell’industria Tremelloni di procedere alla revisione dell’ordina-mento giuridico dell’Istituto.
Il nuovo statuto dell’IRI viene approvato il 12 febbraio 1948: il controllo passava così dal CIR al Consiglio dei ministri e al suo presidente.
Il 22 dicembre 1956 viene varata la legge che istituisce il ministero delle Partecipazioni Statali.
IL CONTESTO
La ristrutturazione dell’IRI nel dopoguerra si svolse, ovviamente, all’interno delle diverse azioni intraprese volte alla ricostruzione del Paese e in un momento politico ancora confuso, quando ancora non era emersa la chiara supremazia della Democrazia Cristiana che avrebbe guidato il Paese negli anni a venire.
Uno dei grossi scontri, che sarà tra i motivi del carattere ibrido del nostro capitalismo, fu quello tra i principi della scuola liberale e una corrente più centralista e programmatica, che abbiamo già avuto modo di incontrare nel numero doppio 7/8 (inviato nel gennaio 2004) parlando del piano Vanoni e del codice di Camaldoli. Era quindi scontato che sull’IRI nascesse un conflitto tra i ministeri, desiderosi di dettare le linee guida per lo sviluppo dell’IRI e i dirigenti dell’Istituto stesso che ne reclamavano l’autonomia.
Lo statuto del 1948, dando il controllo dell’IRI al Consiglio dei ministri, pur se formalmente sembrava vedere vincente la scuola centralista, di fatto rendeva i dirigenti IRI autonomi nelle loro scelte, non potendo il Consiglio dei ministri prendere le redini operative dell’Istituto per la vastità dei compiti di cui già era investito.
Negli anni successivi il quadro politico vide la Democrazia Cristiana come protagonista principale e, con l’entrata in scena di Vanoni al fianco di De Gasperi, la ristrutturazione delle Partecipazioni Statali fu portata a termine nel dicembre del 1956. La nuova struttura organizzativa che venne così modellandosi non risolse stabilmente l’ambiguità nei criteri di gestione delle imprese tra prevalenza del momento pubblico e del momento privato nella formazione delle decisioni aziendali, ma, attribuendo funzioni di coordinamento e controllo ad un organismo politico (cioè il Ministero stesso), dilatava il campo di intervento degli organi dello Stato.
Uno degli effetti di queste scelte fu il proliferare di Enti di controllo e vigilanza che, trovando difficoltà in un’azione coordinata, saranno una delle cause di quella frammentarietà che caratterizzerà l’intervento dello Stato nell’economia del nostro Paese.
L’azione propulsiva dell’IRI sulla nostra economia in quegli anni fu comunque innegabile. Con le due ristrutturazioni sopraccitate l’ente era stato pienamente abilitato a rafforzare le sue strutture produttive e finanziarie.
La nascita dell’ENI nel 1953 fu un importante passaggio di questo sviluppo, ma anche nel settore dell’industria cantieristica e meccanico-impiantistica e nel settore siderurgico l’intervento dell’IRI fu determinante. Tra il 1951 e il 1970 la produzione di acciaio aumentò del 170% e la Finsider (che raggruppava le imprese facenti capo all’IRI) fece da traino provvedendo all’ammodernamento degli stabilimenti di Cornigliano, Bagnoli e Piombino e avviando nel 1961 l’attività dell’acciaieria di Taranto.
In sostanza negli anni Cinquanta l’impresa pubblica uscì dal suo precedente stato di minorità: nel 1961 l’IRI non era più una nave ospedale, ma era anzi divenuta uno dei più cospicui gruppi industriali europei.
Il sistema di economia mista, che così era venuto consolidandosi attraverso la coesistenza e la competizione di apparati industriali paralleli, mise in moto o alimentò un complesso di potenzialità e sinergie.
Quasi senza rendersene conto – osservava nel 1962 il presidente della Banca Commerciale Italiana Raffaele Mattioli – l’IRI, consolidando e allargando il campo d’azione dell’economia controllata dalla mano pubblica, ha protetto l’esistenza e assicurato la sopravvivenza, effettiva e duratura, dell’economia privata.
ATTUALITÀ
LA DEMOCRAZIA? CALMA E SANGUE FREDDO
Per creare una società pluralista non basta il voto. Bisogna isolare i fanatici e accettare che il sistema non sarà mai perfetto.
[…] Il termine «democrazia» viene spesso utilizzato come definizione essenziale della cultura politica occidentale. Allo stesso tempo, la si applica ad altre aree del mondo in modo formale e fuorviante. Per questo motivo veniamo spinti a considerare acriticamente la legittimità di qualsiasi regime in cui una maggioranza abbia vinto un’elezione. Il punto è che la democrazia si è sviluppata o è diventata praticabile in Occidente soltanto parecchio tempo dopo che era emerso un sistema fondato su legge e libertà. Habeas corpus, sistema giuridico e legalità non sono stati prodotti della democrazia, ma da un lungo processo avviato fin dall’epoca medioevale per piegare il potere dell’esecutivo inglese. Il punto è che la democrazia può dare i suoi preziosi frutti soltanto se emerge da una tradizione di legge e di libertà della quale essa stessa è un’espressione.[…]
Più in generale, in Occidente è stata la tradizione a essere generalmente determinante per la politica. Per una costituzione praticabile, l’abitudine è più importante di qualsiasi altro fattore. Le democrazie occidentali non sono infatti modelli di società generate semplicemente dalla parola, dall’idea astratta di «democrazia ». Eppure esse, o alcune di esse, incarnano con buona approssimazione il concetto così come noi lo intendiamo, nel senso che sono fondamentalmente consensuali e plurali. Ecco, nella migliore delle ipotesi queste società sono il prodotto di una lunga evoluzione. Non ci si può aspettare che Paesi privi anche di un minimo di quel background o dell’evoluzione che esso innesca si trasformino istantaneamente in democrazie. Altrimenti succede che quando tali Paesi non mantengono le aspettative vengono denunciati come fallimenti insieme ai loro sponsor occidentali. Il problema è che la democrazia in senso occidentale non si costruisce né si impone facilmente. L’esperienza di Haiti dovrebbe bastare a dimostrarlo. Ciò cui possiamo aspirare, e su cui dobbiamo lavorare, è l’emergere, negli ex stati canaglia o «ideomaniaci», di un inizio, di un minimo di quel retroterra culturale che si è sviluppato in Occidente. I sistemi da incoraggiare devono essere non fanatici e non espansionisti. E questo si accompagna, o tende ad accompagnarsi, ad un certo livello di tolleranza interna, di ordine plurale, ad una tendenza a stabilizzare l’abitudine originando così ciò che chiama tradizione. La democrazia non può funzionare senza un giusto livello di stabilità politica e sociale. Questo implica persino una certa dose di apatia nei confronti della politica stessa. Tutto quanto somiglia a fanatismo, all’egemonia del dominio da parte di «attivisti» va deplorato e basta. […]
Nel suo aspetto più importante, l’ordine civile è il fattore che ha creato uno stato forte pur conservando il principio del consenso. Un obiettivo del genere implica l’articolazione di un ordine politico e sociale complesso. Le tensioni non si possono eliminare ma devono essere continuamente regolate. La civiltà politica non è quindi in primo luogo una questione di buona volontà della leadership o di costituzioni ideali. È soprattutto una questione di tempo e di abitudine. Tutti i peggiori guai dell’ultimo mezzo secolo sono stati provocati da chi ha lasciato che la politica diventasse una mania. Il politico deve essere un servitore e in quanto tale deve svolgere un ruolo limitato. Perché ciò per cui la nostra cultura politica si è battuta, è l’idea della società come sviluppo e ampliamento di libertà e responsabilità consolidate e la convinzione, fondata sull’esperienza, che nelle questioni politiche e sociali le previsioni di lungo termine, pur entusiasmanti e visionarie che siano, raramente hanno successo. La democrazia è quasi sempre criticata dai rivoluzionari per le pecche che mostra in ogni sua manifestazione concreta rispetto alla grande astrazione del puro concetto. La politica reale è piena di aspetti che definire imperfezioni sarebbe generoso. […]
Di fronte ad una società civile si è in presenza di una base su cui poter fare dei miglioramenti. Essa è infatti una società in cui i vari elementi possono esprimersi politicamente, dove esiste un’articolazione a livello politico fra quegli elementi: non un ordine sociale perfetto, che in ogni caso è inattingibile, ma una società che ascolta, che considera e che riforma le ingiustizie. Non è necessariamente democratica, tuttavia ha in sé la possibilità della democrazia. Le previsioni sono comunque difficili. Le culture della legge e della libertà possono anche fiorire, e regioni che ora come ora sembrano non promettere nulla possono entro un certo periodo portare alle loro popolazioni non solo le forme ma anche le abitudini stesse della consensualità. Speriamo. L’istinto umano dimostra sempre una tendenza a conservare almeno una dimensione di autonomia personale da un lato e a formare rapporti comunitari dall’altro. Sono questi ultimi che tendono a sfuggire. Formare un raggruppamento nazionale o qualcosa di simile senza essere privati delle libertà e senza generare astio nei confronti di altri raggruppamenti analoghi: questo è il problema che il mondo ha davanti. Per affrontarlo, abbiamo bisogno di riflessioni caute, di interpretazioni equilibrate, di menti aperte ma non servili. E questo è anche il motivo per cui dobbiamo essere cauti nel firmare trattati internazionali e approvare tribunali internazionali che piacciono a un certo idealismo internazionalista, il quale deve essere promosso con cautela. […]
Robert Conquest
Traduzione di Monica Levy, 4 marzo 2005.
Nel 1968 Robert Conquest anticipò ne Il Grande Terrore (Rizzoli) la fine del regime sovietico. Crollato il comunismo, secondo lo storico inglese la società liberale continua ad essere minacciata dai falsi miti che hanno prodotto guerre e totalitarismi. Oggi Conquest ritiene che il pericolo sia rappresentato da un’ideologia che venera acriticamente ONU e Unione Europea, professa l’anti-americanismo e sottovaluta la minaccia islamica.
ELEZIONI IN IRAQ
Lo scorso 30 gennaio si sono svolte le prime libere elezioni in Iraq.
Dall’elezione nascerà l’Assemblea nazio-nale provvisoria con 275 membri.
L’Assemblea nominerà un nuovo governo ed avrà poteri legislativi; avrà un presidente e due vice.
Entro il 15 agosto dovrà essere preparata una bozza di Costituzione poi sottoposta a referendum nell’ottobre 2005.
Se la Costituzione sarà approvata, nuove elezioni. Data prevista: dicembre 2005.
FONTI E APPROFONDIMENTI
Le imprese industriali nel processo di sviluppo (1953-1975) di Giovanni Bruno, in “Storia dell’Italia repubblicana”, Vol. II - Tomo primo, Torino, Einaudi, 1994
Amministrazione pubblica e partiti di fronte alla politica industriale di Mariuccia Salvati, in “Storia dell’Italia repubblicana”, Vol. I
Valerio Castronovo, Storia economica d’Italia, Torino, Einaudi, 1995
Per l’attualità, http://www.corriere.it/Primo_Piano/Documento/2005/03_Marzo/03/030305_conquest.shtml
Continuiamo a parlare dell'economia italiana nei primi anni del secondo dopoguerra accennando all’IRI e all’intervento dello Stato nel sistema economico italiano.
Nella seconda parte, prendendo spunto dalle elezioni svoltesi in Iraq a fine gennaio, riportiamo alcuni brani dell’articolo dello storico inglese Robert Conquest che tratta del problema dell’esportazione della democrazia al di fuori del mondo occidentale.
Buona lettura.
I FATTI
Nell’estate del 1947 l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale), presieduto fino ad allora dall’avvocato Giuseppe Paratore – in base al decreto del 19 aprile 1946 che aveva concluso la gestione commissariale di Piccardi e ricondotto l’Istituto sotto la responsabilità del Comitato Interministeriale per la Ricostru-zione (CIR) –, è affidato ad un commissario (Giuseppe Longo Imbriani, già direttore della Banca Nazionale del Lavoro) con il mandato di elaborare e proporre una nuova sistemazione dell’istituto.
Sulla base della documentazione preparata da Longo Imbriani, il Governo incarica il ministro senza portafoglio Togni e il ministro dell’industria Tremelloni di procedere alla revisione dell’ordina-mento giuridico dell’Istituto.
Il nuovo statuto dell’IRI viene approvato il 12 febbraio 1948: il controllo passava così dal CIR al Consiglio dei ministri e al suo presidente.
Il 22 dicembre 1956 viene varata la legge che istituisce il ministero delle Partecipazioni Statali.
IL CONTESTO
La ristrutturazione dell’IRI nel dopoguerra si svolse, ovviamente, all’interno delle diverse azioni intraprese volte alla ricostruzione del Paese e in un momento politico ancora confuso, quando ancora non era emersa la chiara supremazia della Democrazia Cristiana che avrebbe guidato il Paese negli anni a venire.
Uno dei grossi scontri, che sarà tra i motivi del carattere ibrido del nostro capitalismo, fu quello tra i principi della scuola liberale e una corrente più centralista e programmatica, che abbiamo già avuto modo di incontrare nel numero doppio 7/8 (inviato nel gennaio 2004) parlando del piano Vanoni e del codice di Camaldoli. Era quindi scontato che sull’IRI nascesse un conflitto tra i ministeri, desiderosi di dettare le linee guida per lo sviluppo dell’IRI e i dirigenti dell’Istituto stesso che ne reclamavano l’autonomia.
Lo statuto del 1948, dando il controllo dell’IRI al Consiglio dei ministri, pur se formalmente sembrava vedere vincente la scuola centralista, di fatto rendeva i dirigenti IRI autonomi nelle loro scelte, non potendo il Consiglio dei ministri prendere le redini operative dell’Istituto per la vastità dei compiti di cui già era investito.
Negli anni successivi il quadro politico vide la Democrazia Cristiana come protagonista principale e, con l’entrata in scena di Vanoni al fianco di De Gasperi, la ristrutturazione delle Partecipazioni Statali fu portata a termine nel dicembre del 1956. La nuova struttura organizzativa che venne così modellandosi non risolse stabilmente l’ambiguità nei criteri di gestione delle imprese tra prevalenza del momento pubblico e del momento privato nella formazione delle decisioni aziendali, ma, attribuendo funzioni di coordinamento e controllo ad un organismo politico (cioè il Ministero stesso), dilatava il campo di intervento degli organi dello Stato.
Uno degli effetti di queste scelte fu il proliferare di Enti di controllo e vigilanza che, trovando difficoltà in un’azione coordinata, saranno una delle cause di quella frammentarietà che caratterizzerà l’intervento dello Stato nell’economia del nostro Paese.
L’azione propulsiva dell’IRI sulla nostra economia in quegli anni fu comunque innegabile. Con le due ristrutturazioni sopraccitate l’ente era stato pienamente abilitato a rafforzare le sue strutture produttive e finanziarie.
La nascita dell’ENI nel 1953 fu un importante passaggio di questo sviluppo, ma anche nel settore dell’industria cantieristica e meccanico-impiantistica e nel settore siderurgico l’intervento dell’IRI fu determinante. Tra il 1951 e il 1970 la produzione di acciaio aumentò del 170% e la Finsider (che raggruppava le imprese facenti capo all’IRI) fece da traino provvedendo all’ammodernamento degli stabilimenti di Cornigliano, Bagnoli e Piombino e avviando nel 1961 l’attività dell’acciaieria di Taranto.
In sostanza negli anni Cinquanta l’impresa pubblica uscì dal suo precedente stato di minorità: nel 1961 l’IRI non era più una nave ospedale, ma era anzi divenuta uno dei più cospicui gruppi industriali europei.
Il sistema di economia mista, che così era venuto consolidandosi attraverso la coesistenza e la competizione di apparati industriali paralleli, mise in moto o alimentò un complesso di potenzialità e sinergie.
Quasi senza rendersene conto – osservava nel 1962 il presidente della Banca Commerciale Italiana Raffaele Mattioli – l’IRI, consolidando e allargando il campo d’azione dell’economia controllata dalla mano pubblica, ha protetto l’esistenza e assicurato la sopravvivenza, effettiva e duratura, dell’economia privata.
ATTUALITÀ
LA DEMOCRAZIA? CALMA E SANGUE FREDDO
Per creare una società pluralista non basta il voto. Bisogna isolare i fanatici e accettare che il sistema non sarà mai perfetto.
[…] Il termine «democrazia» viene spesso utilizzato come definizione essenziale della cultura politica occidentale. Allo stesso tempo, la si applica ad altre aree del mondo in modo formale e fuorviante. Per questo motivo veniamo spinti a considerare acriticamente la legittimità di qualsiasi regime in cui una maggioranza abbia vinto un’elezione. Il punto è che la democrazia si è sviluppata o è diventata praticabile in Occidente soltanto parecchio tempo dopo che era emerso un sistema fondato su legge e libertà. Habeas corpus, sistema giuridico e legalità non sono stati prodotti della democrazia, ma da un lungo processo avviato fin dall’epoca medioevale per piegare il potere dell’esecutivo inglese. Il punto è che la democrazia può dare i suoi preziosi frutti soltanto se emerge da una tradizione di legge e di libertà della quale essa stessa è un’espressione.[…]
Più in generale, in Occidente è stata la tradizione a essere generalmente determinante per la politica. Per una costituzione praticabile, l’abitudine è più importante di qualsiasi altro fattore. Le democrazie occidentali non sono infatti modelli di società generate semplicemente dalla parola, dall’idea astratta di «democrazia ». Eppure esse, o alcune di esse, incarnano con buona approssimazione il concetto così come noi lo intendiamo, nel senso che sono fondamentalmente consensuali e plurali. Ecco, nella migliore delle ipotesi queste società sono il prodotto di una lunga evoluzione. Non ci si può aspettare che Paesi privi anche di un minimo di quel background o dell’evoluzione che esso innesca si trasformino istantaneamente in democrazie. Altrimenti succede che quando tali Paesi non mantengono le aspettative vengono denunciati come fallimenti insieme ai loro sponsor occidentali. Il problema è che la democrazia in senso occidentale non si costruisce né si impone facilmente. L’esperienza di Haiti dovrebbe bastare a dimostrarlo. Ciò cui possiamo aspirare, e su cui dobbiamo lavorare, è l’emergere, negli ex stati canaglia o «ideomaniaci», di un inizio, di un minimo di quel retroterra culturale che si è sviluppato in Occidente. I sistemi da incoraggiare devono essere non fanatici e non espansionisti. E questo si accompagna, o tende ad accompagnarsi, ad un certo livello di tolleranza interna, di ordine plurale, ad una tendenza a stabilizzare l’abitudine originando così ciò che chiama tradizione. La democrazia non può funzionare senza un giusto livello di stabilità politica e sociale. Questo implica persino una certa dose di apatia nei confronti della politica stessa. Tutto quanto somiglia a fanatismo, all’egemonia del dominio da parte di «attivisti» va deplorato e basta. […]
Nel suo aspetto più importante, l’ordine civile è il fattore che ha creato uno stato forte pur conservando il principio del consenso. Un obiettivo del genere implica l’articolazione di un ordine politico e sociale complesso. Le tensioni non si possono eliminare ma devono essere continuamente regolate. La civiltà politica non è quindi in primo luogo una questione di buona volontà della leadership o di costituzioni ideali. È soprattutto una questione di tempo e di abitudine. Tutti i peggiori guai dell’ultimo mezzo secolo sono stati provocati da chi ha lasciato che la politica diventasse una mania. Il politico deve essere un servitore e in quanto tale deve svolgere un ruolo limitato. Perché ciò per cui la nostra cultura politica si è battuta, è l’idea della società come sviluppo e ampliamento di libertà e responsabilità consolidate e la convinzione, fondata sull’esperienza, che nelle questioni politiche e sociali le previsioni di lungo termine, pur entusiasmanti e visionarie che siano, raramente hanno successo. La democrazia è quasi sempre criticata dai rivoluzionari per le pecche che mostra in ogni sua manifestazione concreta rispetto alla grande astrazione del puro concetto. La politica reale è piena di aspetti che definire imperfezioni sarebbe generoso. […]
Di fronte ad una società civile si è in presenza di una base su cui poter fare dei miglioramenti. Essa è infatti una società in cui i vari elementi possono esprimersi politicamente, dove esiste un’articolazione a livello politico fra quegli elementi: non un ordine sociale perfetto, che in ogni caso è inattingibile, ma una società che ascolta, che considera e che riforma le ingiustizie. Non è necessariamente democratica, tuttavia ha in sé la possibilità della democrazia. Le previsioni sono comunque difficili. Le culture della legge e della libertà possono anche fiorire, e regioni che ora come ora sembrano non promettere nulla possono entro un certo periodo portare alle loro popolazioni non solo le forme ma anche le abitudini stesse della consensualità. Speriamo. L’istinto umano dimostra sempre una tendenza a conservare almeno una dimensione di autonomia personale da un lato e a formare rapporti comunitari dall’altro. Sono questi ultimi che tendono a sfuggire. Formare un raggruppamento nazionale o qualcosa di simile senza essere privati delle libertà e senza generare astio nei confronti di altri raggruppamenti analoghi: questo è il problema che il mondo ha davanti. Per affrontarlo, abbiamo bisogno di riflessioni caute, di interpretazioni equilibrate, di menti aperte ma non servili. E questo è anche il motivo per cui dobbiamo essere cauti nel firmare trattati internazionali e approvare tribunali internazionali che piacciono a un certo idealismo internazionalista, il quale deve essere promosso con cautela. […]
Robert Conquest
Traduzione di Monica Levy, 4 marzo 2005.
Nel 1968 Robert Conquest anticipò ne Il Grande Terrore (Rizzoli) la fine del regime sovietico. Crollato il comunismo, secondo lo storico inglese la società liberale continua ad essere minacciata dai falsi miti che hanno prodotto guerre e totalitarismi. Oggi Conquest ritiene che il pericolo sia rappresentato da un’ideologia che venera acriticamente ONU e Unione Europea, professa l’anti-americanismo e sottovaluta la minaccia islamica.
ELEZIONI IN IRAQ
Lo scorso 30 gennaio si sono svolte le prime libere elezioni in Iraq.
Dall’elezione nascerà l’Assemblea nazio-nale provvisoria con 275 membri.
L’Assemblea nominerà un nuovo governo ed avrà poteri legislativi; avrà un presidente e due vice.
Entro il 15 agosto dovrà essere preparata una bozza di Costituzione poi sottoposta a referendum nell’ottobre 2005.
Se la Costituzione sarà approvata, nuove elezioni. Data prevista: dicembre 2005.
FONTI E APPROFONDIMENTI
Le imprese industriali nel processo di sviluppo (1953-1975) di Giovanni Bruno, in “Storia dell’Italia repubblicana”, Vol. II - Tomo primo, Torino, Einaudi, 1994
Amministrazione pubblica e partiti di fronte alla politica industriale di Mariuccia Salvati, in “Storia dell’Italia repubblicana”, Vol. I
Valerio Castronovo, Storia economica d’Italia, Torino, Einaudi, 1995
Per l’attualità, http://www.corriere.it/Primo_Piano/Documento/2005/03_Marzo/03/030305_conquest.shtml
IL SISTEMA BANCARIO ITALIANO NEL SECONDO DOPOGUERRA
EDITORIALE
Dopo avere presentato il sistema di cambi nato a Bretton Woods e le ricadute che necessariamente ne conseguivano sul sistema economico del mondo occidentale, in questo e nei prossimi numeri getteremo uno sguardo sull'economia italiana nei primi anni del secondo dopoguerra.
Nella seconda parte concludiamo la nostra breve esposizione sulla Costituzione italiana dando qualche accenno sulla discussione in aula di alcuni tra i suoi primi articoli, quelli che riguardano i principi fondamentali.
In allegato a questo numero potete trovare il testo integrale della Costituzione italiana nell’edizione del 2003 del Senato della Repubblica.
Buona lettura.
I FATTI
Il 24 ottobre 1929 si verifica il crollo della borsa di New York ed ha così inizio il cosiddetto periodo della “grande depressione” per tutti i paesi capitalistici. In Italia, a causa della maggiore concentrazione dei nuovi posti di lavoro nei servizi e nell’edilizia e del progressivo calo delle esportazioni di beni di consumo durevoli, gli effetti di tale crisi si vedranno solo a partire dai primi anni ’30.
Per potere fare fronte a questa crisi il 3 dicembre del 1931 viene fondato l’Istituto Mobiliare Italiano (IMI), quale tentativo di riordino del settore bancario italiano.
Il 23 gennaio del 1933 viene fondato l’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI) con due settori di intervento: la Sezione finanziamenti (che si affianca all’attività dell’Imi nel credito alle imprese) e la Sezione smobilizzi (che andrà via via acquistando le partecipazioni azionarie di industrie di diversi settori: telefonico, marittimo, edilizio, finanziario, siderurgico, meccanico).
Presidente dell’IRI viene nominato Alberto Beneduce, direttore generale Donato Menichella.
Il 12 marzo 1934 l’IRI acquisisce il controllo dei tre maggiori istituti di credito – Banca commerciale italiana, Credito italiano e Banco di Roma- accollandosi l’onere del loro risanamento finanziario ed entrando in possesso dei pacchetti azionari delle industrie da questi detenuti.
Nell’ottobre del 1936 viene emanata la legge per il riordino del sistema bancario che sanziona la fine della banca mista: gli istituti non possono più compiere operazioni di credito industriale a lungo termine.
La Banca Commerciale Italiana, il Credito Italiano e il Banco di Roma sono dichiarate banche di interesse nazionale (BIN).
IL CONTESTO
Tra le fine del 1931 e i primi mesi del 1932 gli effetti della depressione si propagarono con sempre maggiore violenza anche nel nostro Paese. Alla liquidazione in massa degli investimenti a breve termine, a una vasta sequenza di fallimenti e al crollo in borsa dei titoli azionari (colpiti da una svalutazione media di quasi il 40%) si accompagnò una caduta verticale dei prezzi.
Nessun settore riuscì a salvarsi dagli sconquassi della depressione. In questa situazione gran parte del sistema economico sarebbe colato a picco se lo Stato non fosse intervenuto con l’operazione che nel 1933 portò alla nascita dell’IRI. Lo Stato non si caricò soltanto del fardello di alcune imprese malconce, ma si addossò anche il compito di scongiurare il crollo delle principali banche, coinvolte a tal punto nel finanziamento e nella gestione del sistema industriale da trovarsi in pratica sull’orlo del fallimento, travolte da una massa di immobilizzi a medio e lungo termine.
Nel 1932, su un totale di depositi e conti correnti pari a 4,5 miliardi di lire di allora, gli immobilizzi industriali ammontavano a ben 12 miliardi di lire. Le anomalie dovute agli stretti rapporti fra le “banche miste” e il sistema industriale aveva finito per coinvolgere anche la Banca d’Italia, giacché essa aveva dovuto impegnarsi, a seconda delle necessità, in varie operazioni a sostegno degli istituti di credito più esposti.
La riforma bancaria del 1936 da un lato stabilì una netta distinzione fra esercizio del credito ordinario ed esercizio del credito mobiliare, dall’altro accrebbe (al di là delle prerogative già attribuite dieci anni prima alla Banca d’Italia) l’ambito e gli strumenti della vigilanza pubblica sul mercato finanziario, al fine di tutelare i risparmiatori e di ricomporre il sistema bancario su basi più salde. In pratica venne fatto divieto alle banche di deposito e di sconto di intervenire nel campo del credito industriale (lasciato così al mercato finanziario e ad istituti speciali di credito mobiliare), mentre al vertice dell’organizzazione creditizia fu insediato un gruppo di enti e soggetti pubblici facente capo al governo e alla Banca d’Italia.
Il nuovo sistema bancario italiano del secondo dopoguerra si completò con la fondazione, il 10 aprile 1946, della Banca di Credito Finanziario, poi nota come Mediobanca, ad opera delle tre banche di interesse nazionale. Primo direttore fu nominato Enrico Cuccia, proveniente dalla Commerciale e genero di Alberto Beneduce.
Il nuovo istituto si sarebbe occupato del credito a medio termine, da uno a cinque anni, approvvigionandosi con il risparmio privato e con l’emissione di buoni fruttiferi e di obbligazioni con analoga scadenza, ma anche con il collocamento di azioni e di obbligazioni per conto terzi ed altre minori attività.
Di fatto, riprendendo la funzione esercitata un tempo dalla “banca mista”, ma senza coinvolgere in modo diretto le banche ordinarie, Mediobanca da un lato presidierà gli aspetti proprietari e di controllo societario nell’ambito dell’establishment economico e dall’altro promuoverà e coordinerà le relazioni fiduciarie e di sindacato più funzionali alle mutevoli potenzialità e strategie di alcuni dei maggiori gruppi industriali e finanziari italiani.
ATTUALITÀ
LA COSTITUZIONE ITALIANA: LA DICSUSSONE IN AULA
Concludiamo la nostra esposizione sulla Costituzione italiana descrivendo come si è giunti all’approvazione di alcuni dei primi 12 articoli, quelli relativi ai principi fondamentali.
ARTICOLO 1
In Assemblea la formula Fanfani (“…fondata sul lavoro…”) fu illustrata dallo stesso relatore il quale spiegò che la frase proposta costituiva “l’affermazione del dovere di ogni uomo di…[fornire] il massimo contributo alla prosperità comune”, fuggendo un’interpretazione di “pura esaltazione della fatica muscolare o del puro sforzo fisico”. Anche il Presidente della Commissione dei “75” Ruini aderì alla proposta di inserimento di questo concetto nella formulazione offerta da Fanfani: “Lavoro di tutti, non solo manuale, ma in ogni sua forma di espressione umana”.
Che la sovranità dovesse appartenere al popolo o allo Stato fu un argomento di discussione, basato soprattutto su ragioni storiche, dapprima all’interno della Commissione, e poi all’interno dell’Assemblea.
Ruini commentò così la discussione che seguì e che riguardò principalmente i termini da utilizzare: “Non inopportunamente è stato scelto «appartiene» al popolo; mentre «emana dal popolo» poteva far dubitare che, una volta emanato, non risiedesse più nel popolo”".
“… La sovranità del popolo si esplica, mediante il voto, nell’elezione del Parlamento e del referendum”.
ARTICOLO 2
La discussione in Assemblea Costituente fu limitata: la formula fu concordata tra le maggiori correnti politiche.
ARTICOLO 3
In particolare Ruini sottolineò l’importanza dell’uguaglianza “senza distinzione di sesso”: per la prima volta, infatti, dopo il suffragio universale nel referendum istituzionale del 2 giugno 1946, i costituenti avevano sancito la parità e l’eguaglianza tra i sessi.
ARTICOLO 5
La formula “adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento” si adottò per sottolineare l’ormai sopravvenuta impossibilità, da parte del Parlamento, a produrre leggi “minute e particolareggiate”. Lo sviluppo del nuovo Stato avrebbe portato il Parlamento alla creazione di leggi-cornice, che avrebbero racchiuso quei principi base che sarebbero poi stati integrati ed attuati dal Governo o dagli altri organi ed enti dello Stato (le regioni).
ARTICOLO 7
Durante la fase costituente l’unità del paese appariva come la conquista da difendere: obiettivo il cui conseguimento imponeva di evitare che fosse rimessa in discussione la pace religiosa, raggiunta grazie alla Conciliazione del 1929.
Proprio in questa prospettiva, molti videro di buon grado l’inserimento dei Patti Lateranensi nella nuova Costituzione, ritenendo che ciò avrebbe consentito di compiere “un nuovo e definitivo passo … verso il consolidamento della pace religiosa nel nostro Paese, consacrando la fine del dannoso divorzio tra la coscienza cattolica e la coscienza nazionale del nostro popolo che, nella quasi sua totalità, rimane fedele alla religione dei Padri”; l’On. La Pira fece notare la centralità del problema religioso sostenendo che una Costituzione pluralista che considerasse la concreta realtà sociale del Paese non avrebbe potuto non tener conto di quella “struttura sociale religiosa che è la Chiesa” .
“[…]DE GASPERI [DC] "Se si voterà contro l'articolo non saremo noi che apriremo una battaglia politica; sarete voi che aprirete in questo dilaniato corpo italiano una nuova ferita".
NENNI [PSI] afferma "L'appello di De Gasperi a tutti i repubblicani [nel senso di tutti gli eletti al parlamento italiano N.d.R.] perché meditino le conseguenze che un voto negativo potrebbe avere non soltanto sulla pace religiosa ma anche sulla pace politica del paese non modifica l'atteggiamento del suo partito [i socialisti N.d.R.]. I socialisti, con la coscienza di fare il loro dovere, voteranno contro l'Art. 7".
TOGLIATTI [PCI]:"Per quanto riguarda la prima parte, in cui si dice che lo stato e la chiesa cattolica sono organi nel proprio ordine indipendenti e sovrani, il gruppo comunista non ha difficoltà ad approvarla nella sua precisa formulazione. Quanto alle seconda parte dell'articolo, in cui si stabilisce che i rapporti fra stato e chiesa siano regolati dai Patti Lateranensi, è essa che ha formato argomento alle più appassionate discussioni, ma anche su questo punto l'orientamento suo [del gruppo comunista N.d.R.] e del suo partito [comunista N.d.R.] è preciso ed esplicito. Fin dal 1946, in occasione del quinto congresso comunista, pose, e il congresso approvò, come postulati del partito i seguenti:
1) Rivendicare la libertà di coscienza, di fede, di culto e di propaganda religiosa;
2) considerare definitivamente chiusa la questione romana;
3) affermare che i Patti Lateranensi, essendo strumento bilaterale, non possono essere modificati che bilateralmente.
La pace religiosa - prosegue Togliatti - è stata permanentemente l'obiettivo del partito comunista. Ecco perché la dichiarazione che egli [il gruppo comunista N.d.R.] è per fare potrebbe trasformarsi in un appello a tutte le altre parti della Camera di votare come i comunisti voteranno. Col suo voto egli comprende benissimo che la responsabilità che il partito comunista si assume è assai grave, più grave ancora di quella del partito socialista, ma il fatto essenziale è questo: la classe operaia non vuole scissione per motivi religiosi e non vuole intaccata l'unità morale e politica della nazione. Di queste due esigenze i comunisti non possono non tener conto.
Unico scopo che muove i comunisti è quello dell'unità delle masse lavoratrici in Italia. Per questa unità i comunisti voteranno a favore".
I risultati della votazione sono i seguenti: presenti e votanti 499, maggioranza 250: hanno votato a favore 350, votato contro 149. I due commi dell'Art. 7 sono approvati.
Hanno votato sì: democristiani, comunisti, qualunquisti, una parte dei liberali.” (Ag. Ansa, 25 marzo 1946).
ARTICOLO 11
Il pacifismo fu un atteggiamento mentale condiviso da tutti i partiti politici, alla Costituente; questa componente del pacifismo venne incorporata nell’articolo 11.
Non ci si limitò a parlare del ripudio della guerra in generale, ma si disse: la guerra noi la rifiutiamo in quanto sia strumento di offesa alla libertà degli altri popoli; non ci fu cioè un accoglimento generico e fumoso del pacifismo.
Alla base del ripudio della guerra vi fu, tra i padri fondatori della Costituzione italiana, l’intendimento di trasferire sul piano internazionale quei principi di libertà, di uguaglianza e di sostanziale rispetto della persona umana, che si volevano affermare ed attuare nell’ordine interno.
L’articolo 11 della Carta fondamentale però non si limita al ripudio dello strumento bellico, ma ha costituito e costituisce la base giuridico-costituzionale per l’adesione italiana alle organizzazioni internazionali (in primis, l’ONU) e per le reciproche limitazioni di sovranità che hanno condotto, con la nascita dell’Unione Europea, “dal nazionale al sovranazionale”.
I PRINCIPI FONDAMENTALI
Art. 1.
L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.
Art. 2.
La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Art. 3.
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Art. 4.
La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.
Art. 5.
La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministra-tivo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentra-mento.
Art. 6.
La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche.
Art. 7.
Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.
I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale.
Art. 8.
Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge.
Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano.
I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze.
Art. 9.
La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.
Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.
Art. 10.
L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute.
La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali.
Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge.
Non è ammessa l’estradizione dello straniero per reati politici.
Art. 11.
L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
Art. 12.
La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni.
FONTI E APPROFONDIMENTI
Valerio Castronovo, Storia economica d’Italia, Torino, Einaudi, 1995
L’economia italiana tra la fine della seconda guerra mondiale e il “secondo miracolo economico”(1945-58) di Giorgio Mori, in “Storia dell’Italia repubblicana”, Vol. I, Torino, Einaudi , 1994.
L’economia italiana dal secondo dopoguerra a oggi di Paride Rugafiori, in “La storia – I grandi problemi dell’età contemporanea”, opera coordinata da N. Tranfaglia e M. Firpo, Vol. V, Garzanti, 2001, pp. 121-153;
A.A.V.V., Enciclopedia universale Rizzoli Larousse, Milano, Rizzoli, 2002; 1971 e aggiornamenti su CDRom
A.A.V.V., Enciclopedia della storia universale, Novara, De Agostini, 2000
http://www.dse.unive.it/storia/sem07.htm e, per la parte di attualità, http://www.cronologia.it/cost01.htm
Per il testo della Costituzione: http://www.senato.it/istituzione/costituzione/articoli.htm
Dopo avere presentato il sistema di cambi nato a Bretton Woods e le ricadute che necessariamente ne conseguivano sul sistema economico del mondo occidentale, in questo e nei prossimi numeri getteremo uno sguardo sull'economia italiana nei primi anni del secondo dopoguerra.
Nella seconda parte concludiamo la nostra breve esposizione sulla Costituzione italiana dando qualche accenno sulla discussione in aula di alcuni tra i suoi primi articoli, quelli che riguardano i principi fondamentali.
In allegato a questo numero potete trovare il testo integrale della Costituzione italiana nell’edizione del 2003 del Senato della Repubblica.
Buona lettura.
I FATTI
Il 24 ottobre 1929 si verifica il crollo della borsa di New York ed ha così inizio il cosiddetto periodo della “grande depressione” per tutti i paesi capitalistici. In Italia, a causa della maggiore concentrazione dei nuovi posti di lavoro nei servizi e nell’edilizia e del progressivo calo delle esportazioni di beni di consumo durevoli, gli effetti di tale crisi si vedranno solo a partire dai primi anni ’30.
Per potere fare fronte a questa crisi il 3 dicembre del 1931 viene fondato l’Istituto Mobiliare Italiano (IMI), quale tentativo di riordino del settore bancario italiano.
Il 23 gennaio del 1933 viene fondato l’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI) con due settori di intervento: la Sezione finanziamenti (che si affianca all’attività dell’Imi nel credito alle imprese) e la Sezione smobilizzi (che andrà via via acquistando le partecipazioni azionarie di industrie di diversi settori: telefonico, marittimo, edilizio, finanziario, siderurgico, meccanico).
Presidente dell’IRI viene nominato Alberto Beneduce, direttore generale Donato Menichella.
Il 12 marzo 1934 l’IRI acquisisce il controllo dei tre maggiori istituti di credito – Banca commerciale italiana, Credito italiano e Banco di Roma- accollandosi l’onere del loro risanamento finanziario ed entrando in possesso dei pacchetti azionari delle industrie da questi detenuti.
Nell’ottobre del 1936 viene emanata la legge per il riordino del sistema bancario che sanziona la fine della banca mista: gli istituti non possono più compiere operazioni di credito industriale a lungo termine.
La Banca Commerciale Italiana, il Credito Italiano e il Banco di Roma sono dichiarate banche di interesse nazionale (BIN).
IL CONTESTO
Tra le fine del 1931 e i primi mesi del 1932 gli effetti della depressione si propagarono con sempre maggiore violenza anche nel nostro Paese. Alla liquidazione in massa degli investimenti a breve termine, a una vasta sequenza di fallimenti e al crollo in borsa dei titoli azionari (colpiti da una svalutazione media di quasi il 40%) si accompagnò una caduta verticale dei prezzi.
Nessun settore riuscì a salvarsi dagli sconquassi della depressione. In questa situazione gran parte del sistema economico sarebbe colato a picco se lo Stato non fosse intervenuto con l’operazione che nel 1933 portò alla nascita dell’IRI. Lo Stato non si caricò soltanto del fardello di alcune imprese malconce, ma si addossò anche il compito di scongiurare il crollo delle principali banche, coinvolte a tal punto nel finanziamento e nella gestione del sistema industriale da trovarsi in pratica sull’orlo del fallimento, travolte da una massa di immobilizzi a medio e lungo termine.
Nel 1932, su un totale di depositi e conti correnti pari a 4,5 miliardi di lire di allora, gli immobilizzi industriali ammontavano a ben 12 miliardi di lire. Le anomalie dovute agli stretti rapporti fra le “banche miste” e il sistema industriale aveva finito per coinvolgere anche la Banca d’Italia, giacché essa aveva dovuto impegnarsi, a seconda delle necessità, in varie operazioni a sostegno degli istituti di credito più esposti.
La riforma bancaria del 1936 da un lato stabilì una netta distinzione fra esercizio del credito ordinario ed esercizio del credito mobiliare, dall’altro accrebbe (al di là delle prerogative già attribuite dieci anni prima alla Banca d’Italia) l’ambito e gli strumenti della vigilanza pubblica sul mercato finanziario, al fine di tutelare i risparmiatori e di ricomporre il sistema bancario su basi più salde. In pratica venne fatto divieto alle banche di deposito e di sconto di intervenire nel campo del credito industriale (lasciato così al mercato finanziario e ad istituti speciali di credito mobiliare), mentre al vertice dell’organizzazione creditizia fu insediato un gruppo di enti e soggetti pubblici facente capo al governo e alla Banca d’Italia.
Il nuovo sistema bancario italiano del secondo dopoguerra si completò con la fondazione, il 10 aprile 1946, della Banca di Credito Finanziario, poi nota come Mediobanca, ad opera delle tre banche di interesse nazionale. Primo direttore fu nominato Enrico Cuccia, proveniente dalla Commerciale e genero di Alberto Beneduce.
Il nuovo istituto si sarebbe occupato del credito a medio termine, da uno a cinque anni, approvvigionandosi con il risparmio privato e con l’emissione di buoni fruttiferi e di obbligazioni con analoga scadenza, ma anche con il collocamento di azioni e di obbligazioni per conto terzi ed altre minori attività.
Di fatto, riprendendo la funzione esercitata un tempo dalla “banca mista”, ma senza coinvolgere in modo diretto le banche ordinarie, Mediobanca da un lato presidierà gli aspetti proprietari e di controllo societario nell’ambito dell’establishment economico e dall’altro promuoverà e coordinerà le relazioni fiduciarie e di sindacato più funzionali alle mutevoli potenzialità e strategie di alcuni dei maggiori gruppi industriali e finanziari italiani.
ATTUALITÀ
LA COSTITUZIONE ITALIANA: LA DICSUSSONE IN AULA
Concludiamo la nostra esposizione sulla Costituzione italiana descrivendo come si è giunti all’approvazione di alcuni dei primi 12 articoli, quelli relativi ai principi fondamentali.
ARTICOLO 1
In Assemblea la formula Fanfani (“…fondata sul lavoro…”) fu illustrata dallo stesso relatore il quale spiegò che la frase proposta costituiva “l’affermazione del dovere di ogni uomo di…[fornire] il massimo contributo alla prosperità comune”, fuggendo un’interpretazione di “pura esaltazione della fatica muscolare o del puro sforzo fisico”. Anche il Presidente della Commissione dei “75” Ruini aderì alla proposta di inserimento di questo concetto nella formulazione offerta da Fanfani: “Lavoro di tutti, non solo manuale, ma in ogni sua forma di espressione umana”.
Che la sovranità dovesse appartenere al popolo o allo Stato fu un argomento di discussione, basato soprattutto su ragioni storiche, dapprima all’interno della Commissione, e poi all’interno dell’Assemblea.
Ruini commentò così la discussione che seguì e che riguardò principalmente i termini da utilizzare: “Non inopportunamente è stato scelto «appartiene» al popolo; mentre «emana dal popolo» poteva far dubitare che, una volta emanato, non risiedesse più nel popolo”".
“… La sovranità del popolo si esplica, mediante il voto, nell’elezione del Parlamento e del referendum”.
ARTICOLO 2
La discussione in Assemblea Costituente fu limitata: la formula fu concordata tra le maggiori correnti politiche.
ARTICOLO 3
In particolare Ruini sottolineò l’importanza dell’uguaglianza “senza distinzione di sesso”: per la prima volta, infatti, dopo il suffragio universale nel referendum istituzionale del 2 giugno 1946, i costituenti avevano sancito la parità e l’eguaglianza tra i sessi.
ARTICOLO 5
La formula “adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento” si adottò per sottolineare l’ormai sopravvenuta impossibilità, da parte del Parlamento, a produrre leggi “minute e particolareggiate”. Lo sviluppo del nuovo Stato avrebbe portato il Parlamento alla creazione di leggi-cornice, che avrebbero racchiuso quei principi base che sarebbero poi stati integrati ed attuati dal Governo o dagli altri organi ed enti dello Stato (le regioni).
ARTICOLO 7
Durante la fase costituente l’unità del paese appariva come la conquista da difendere: obiettivo il cui conseguimento imponeva di evitare che fosse rimessa in discussione la pace religiosa, raggiunta grazie alla Conciliazione del 1929.
Proprio in questa prospettiva, molti videro di buon grado l’inserimento dei Patti Lateranensi nella nuova Costituzione, ritenendo che ciò avrebbe consentito di compiere “un nuovo e definitivo passo … verso il consolidamento della pace religiosa nel nostro Paese, consacrando la fine del dannoso divorzio tra la coscienza cattolica e la coscienza nazionale del nostro popolo che, nella quasi sua totalità, rimane fedele alla religione dei Padri”; l’On. La Pira fece notare la centralità del problema religioso sostenendo che una Costituzione pluralista che considerasse la concreta realtà sociale del Paese non avrebbe potuto non tener conto di quella “struttura sociale religiosa che è la Chiesa” .
“[…]DE GASPERI [DC] "Se si voterà contro l'articolo non saremo noi che apriremo una battaglia politica; sarete voi che aprirete in questo dilaniato corpo italiano una nuova ferita".
NENNI [PSI] afferma "L'appello di De Gasperi a tutti i repubblicani [nel senso di tutti gli eletti al parlamento italiano N.d.R.] perché meditino le conseguenze che un voto negativo potrebbe avere non soltanto sulla pace religiosa ma anche sulla pace politica del paese non modifica l'atteggiamento del suo partito [i socialisti N.d.R.]. I socialisti, con la coscienza di fare il loro dovere, voteranno contro l'Art. 7".
TOGLIATTI [PCI]:"Per quanto riguarda la prima parte, in cui si dice che lo stato e la chiesa cattolica sono organi nel proprio ordine indipendenti e sovrani, il gruppo comunista non ha difficoltà ad approvarla nella sua precisa formulazione. Quanto alle seconda parte dell'articolo, in cui si stabilisce che i rapporti fra stato e chiesa siano regolati dai Patti Lateranensi, è essa che ha formato argomento alle più appassionate discussioni, ma anche su questo punto l'orientamento suo [del gruppo comunista N.d.R.] e del suo partito [comunista N.d.R.] è preciso ed esplicito. Fin dal 1946, in occasione del quinto congresso comunista, pose, e il congresso approvò, come postulati del partito i seguenti:
1) Rivendicare la libertà di coscienza, di fede, di culto e di propaganda religiosa;
2) considerare definitivamente chiusa la questione romana;
3) affermare che i Patti Lateranensi, essendo strumento bilaterale, non possono essere modificati che bilateralmente.
La pace religiosa - prosegue Togliatti - è stata permanentemente l'obiettivo del partito comunista. Ecco perché la dichiarazione che egli [il gruppo comunista N.d.R.] è per fare potrebbe trasformarsi in un appello a tutte le altre parti della Camera di votare come i comunisti voteranno. Col suo voto egli comprende benissimo che la responsabilità che il partito comunista si assume è assai grave, più grave ancora di quella del partito socialista, ma il fatto essenziale è questo: la classe operaia non vuole scissione per motivi religiosi e non vuole intaccata l'unità morale e politica della nazione. Di queste due esigenze i comunisti non possono non tener conto.
Unico scopo che muove i comunisti è quello dell'unità delle masse lavoratrici in Italia. Per questa unità i comunisti voteranno a favore".
I risultati della votazione sono i seguenti: presenti e votanti 499, maggioranza 250: hanno votato a favore 350, votato contro 149. I due commi dell'Art. 7 sono approvati.
Hanno votato sì: democristiani, comunisti, qualunquisti, una parte dei liberali.” (Ag. Ansa, 25 marzo 1946).
ARTICOLO 11
Il pacifismo fu un atteggiamento mentale condiviso da tutti i partiti politici, alla Costituente; questa componente del pacifismo venne incorporata nell’articolo 11.
Non ci si limitò a parlare del ripudio della guerra in generale, ma si disse: la guerra noi la rifiutiamo in quanto sia strumento di offesa alla libertà degli altri popoli; non ci fu cioè un accoglimento generico e fumoso del pacifismo.
Alla base del ripudio della guerra vi fu, tra i padri fondatori della Costituzione italiana, l’intendimento di trasferire sul piano internazionale quei principi di libertà, di uguaglianza e di sostanziale rispetto della persona umana, che si volevano affermare ed attuare nell’ordine interno.
L’articolo 11 della Carta fondamentale però non si limita al ripudio dello strumento bellico, ma ha costituito e costituisce la base giuridico-costituzionale per l’adesione italiana alle organizzazioni internazionali (in primis, l’ONU) e per le reciproche limitazioni di sovranità che hanno condotto, con la nascita dell’Unione Europea, “dal nazionale al sovranazionale”.
I PRINCIPI FONDAMENTALI
Art. 1.
L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.
Art. 2.
La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Art. 3.
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Art. 4.
La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.
Art. 5.
La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministra-tivo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentra-mento.
Art. 6.
La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche.
Art. 7.
Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.
I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale.
Art. 8.
Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge.
Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano.
I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze.
Art. 9.
La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.
Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.
Art. 10.
L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute.
La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali.
Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge.
Non è ammessa l’estradizione dello straniero per reati politici.
Art. 11.
L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
Art. 12.
La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni.
FONTI E APPROFONDIMENTI
Valerio Castronovo, Storia economica d’Italia, Torino, Einaudi, 1995
L’economia italiana tra la fine della seconda guerra mondiale e il “secondo miracolo economico”(1945-58) di Giorgio Mori, in “Storia dell’Italia repubblicana”, Vol. I, Torino, Einaudi , 1994.
L’economia italiana dal secondo dopoguerra a oggi di Paride Rugafiori, in “La storia – I grandi problemi dell’età contemporanea”, opera coordinata da N. Tranfaglia e M. Firpo, Vol. V, Garzanti, 2001, pp. 121-153;
A.A.V.V., Enciclopedia universale Rizzoli Larousse, Milano, Rizzoli, 2002; 1971 e aggiornamenti su CDRom
A.A.V.V., Enciclopedia della storia universale, Novara, De Agostini, 2000
http://www.dse.unive.it/storia/sem07.htm e, per la parte di attualità, http://www.cronologia.it/cost01.htm
Per il testo della Costituzione: http://www.senato.it/istituzione/costituzione/articoli.htm