mercoledì, aprile 05, 2006

 

L’INTERVENTO DELLO STATO NELL’ECONOMIA ITALIANA

EDITORIALE

Continuiamo a parlare dell'economia italiana nei primi anni del secondo dopoguerra accennando all’IRI e all’intervento dello Stato nel sistema economico italiano.

Nella seconda parte, prendendo spunto dalle elezioni svoltesi in Iraq a fine gennaio, riportiamo alcuni brani dell’articolo dello storico inglese Robert Conquest che tratta del problema dell’esportazione della democrazia al di fuori del mondo occidentale.

Buona lettura.

I FATTI

Nell’estate del 1947 l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale), presieduto fino ad allora dall’avvocato Giuseppe Paratore – in base al decreto del 19 aprile 1946 che aveva concluso la gestione commissariale di Piccardi e ricondotto l’Istituto sotto la responsabilità del Comitato Interministeriale per la Ricostru-zione (CIR) –, è affidato ad un commissario (Giuseppe Longo Imbriani, già direttore della Banca Nazionale del Lavoro) con il mandato di elaborare e proporre una nuova sistemazione dell’istituto.

Sulla base della documentazione preparata da Longo Imbriani, il Governo incarica il ministro senza portafoglio Togni e il ministro dell’industria Tremelloni di procedere alla revisione dell’ordina-mento giuridico dell’Istituto.

Il nuovo statuto dell’IRI viene approvato il 12 febbraio 1948: il controllo passava così dal CIR al Consiglio dei ministri e al suo presidente.

Il 22 dicembre 1956 viene varata la legge che istituisce il ministero delle Partecipazioni Statali.

IL CONTESTO

La ristrutturazione dell’IRI nel dopoguerra si svolse, ovviamente, all’interno delle diverse azioni intraprese volte alla ricostruzione del Paese e in un momento politico ancora confuso, quando ancora non era emersa la chiara supremazia della Democrazia Cristiana che avrebbe guidato il Paese negli anni a venire.

Uno dei grossi scontri, che sarà tra i motivi del carattere ibrido del nostro capitalismo, fu quello tra i principi della scuola liberale e una corrente più centralista e programmatica, che abbiamo già avuto modo di incontrare nel numero doppio 7/8 (inviato nel gennaio 2004) parlando del piano Vanoni e del codice di Camaldoli. Era quindi scontato che sull’IRI nascesse un conflitto tra i ministeri, desiderosi di dettare le linee guida per lo sviluppo dell’IRI e i dirigenti dell’Istituto stesso che ne reclamavano l’autonomia.

Lo statuto del 1948, dando il controllo dell’IRI al Consiglio dei ministri, pur se formalmente sembrava vedere vincente la scuola centralista, di fatto rendeva i dirigenti IRI autonomi nelle loro scelte, non potendo il Consiglio dei ministri prendere le redini operative dell’Istituto per la vastità dei compiti di cui già era investito.

Negli anni successivi il quadro politico vide la Democrazia Cristiana come protagonista principale e, con l’entrata in scena di Vanoni al fianco di De Gasperi, la ristrutturazione delle Partecipazioni Statali fu portata a termine nel dicembre del 1956. La nuova struttura organizzativa che venne così modellandosi non risolse stabilmente l’ambiguità nei criteri di gestione delle imprese tra prevalenza del momento pubblico e del momento privato nella formazione delle decisioni aziendali, ma, attribuendo funzioni di coordinamento e controllo ad un organismo politico (cioè il Ministero stesso), dilatava il campo di intervento degli organi dello Stato.

Uno degli effetti di queste scelte fu il proliferare di Enti di controllo e vigilanza che, trovando difficoltà in un’azione coordinata, saranno una delle cause di quella frammentarietà che caratterizzerà l’intervento dello Stato nell’economia del nostro Paese.

L’azione propulsiva dell’IRI sulla nostra economia in quegli anni fu comunque innegabile. Con le due ristrutturazioni sopraccitate l’ente era stato pienamente abilitato a rafforzare le sue strutture produttive e finanziarie.

La nascita dell’ENI nel 1953 fu un importante passaggio di questo sviluppo, ma anche nel settore dell’industria cantieristica e meccanico-impiantistica e nel settore siderurgico l’intervento dell’IRI fu determinante. Tra il 1951 e il 1970 la produzione di acciaio aumentò del 170% e la Finsider (che raggruppava le imprese facenti capo all’IRI) fece da traino provvedendo all’ammodernamento degli stabilimenti di Cornigliano, Bagnoli e Piombino e avviando nel 1961 l’attività dell’acciaieria di Taranto.

In sostanza negli anni Cinquanta l’impresa pubblica uscì dal suo precedente stato di minorità: nel 1961 l’IRI non era più una nave ospedale, ma era anzi divenuta uno dei più cospicui gruppi industriali europei.

Il sistema di economia mista, che così era venuto consolidandosi attraverso la coesistenza e la competizione di apparati industriali paralleli, mise in moto o alimentò un complesso di potenzialità e sinergie.

Quasi senza rendersene conto – osservava nel 1962 il presidente della Banca Commerciale Italiana Raffaele Mattioli – l’IRI, consolidando e allargando il campo d’azione dell’economia controllata dalla mano pubblica, ha protetto l’esistenza e assicurato la sopravvivenza, effettiva e duratura, dell’economia privata.

ATTUALITÀ


LA DEMOCRAZIA? CALMA E SANGUE FREDDO

Per creare una società pluralista non basta il voto. Bisogna isolare i fanatici e accettare che il sistema non sarà mai perfetto.

[…] Il termine «democrazia» viene spesso utilizzato come definizione essenziale della cultura politica occidentale. Allo stesso tempo, la si applica ad altre aree del mondo in modo formale e fuorviante. Per questo motivo veniamo spinti a considerare acriticamente la legittimità di qualsiasi regime in cui una maggioranza abbia vinto un’elezione. Il punto è che la democrazia si è sviluppata o è diventata praticabile in Occidente soltanto parecchio tempo dopo che era emerso un sistema fondato su legge e libertà. Habeas corpus, sistema giuridico e legalità non sono stati prodotti della democrazia, ma da un lungo processo avviato fin dall’epoca medioevale per piegare il potere dell’esecutivo inglese. Il punto è che la democrazia può dare i suoi preziosi frutti soltanto se emerge da una tradizione di legge e di libertà della quale essa stessa è un’espressione.[…]

Più in generale, in Occidente è stata la tradizione a essere generalmente determinante per la politica. Per una costituzione praticabile, l’abitudine è più importante di qualsiasi altro fattore. Le democrazie occidentali non sono infatti modelli di società generate semplicemente dalla parola, dall’idea astratta di «democrazia ». Eppure esse, o alcune di esse, incarnano con buona approssimazione il concetto così come noi lo intendiamo, nel senso che sono fondamentalmente consensuali e plurali. Ecco, nella migliore delle ipotesi queste società sono il prodotto di una lunga evoluzione. Non ci si può aspettare che Paesi privi anche di un minimo di quel background o dell’evoluzione che esso innesca si trasformino istantaneamente in democrazie. Altrimenti succede che quando tali Paesi non mantengono le aspettative vengono denunciati come fallimenti insieme ai loro sponsor occidentali. Il problema è che la democrazia in senso occidentale non si costruisce né si impone facilmente. L’esperienza di Haiti dovrebbe bastare a dimostrarlo. Ciò cui possiamo aspirare, e su cui dobbiamo lavorare, è l’emergere, negli ex stati canaglia o «ideomaniaci», di un inizio, di un minimo di quel retroterra culturale che si è sviluppato in Occidente. I sistemi da incoraggiare devono essere non fanatici e non espansionisti. E questo si accompagna, o tende ad accompagnarsi, ad un certo livello di tolleranza interna, di ordine plurale, ad una tendenza a stabilizzare l’abitudine originando così ciò che chiama tradizione. La democrazia non può funzionare senza un giusto livello di stabilità politica e sociale. Questo implica persino una certa dose di apatia nei confronti della politica stessa. Tutto quanto somiglia a fanatismo, all’egemonia del dominio da parte di «attivisti» va deplorato e basta. […]

Nel suo aspetto più importante, l’ordine civile è il fattore che ha creato uno stato forte pur conservando il principio del consenso. Un obiettivo del genere implica l’articolazione di un ordine politico e sociale complesso. Le tensioni non si possono eliminare ma devono essere continuamente regolate. La civiltà politica non è quindi in primo luogo una questione di buona volontà della leadership o di costituzioni ideali. È soprattutto una questione di tempo e di abitudine. Tutti i peggiori guai dell’ultimo mezzo secolo sono stati provocati da chi ha lasciato che la politica diventasse una mania. Il politico deve essere un servitore e in quanto tale deve svolgere un ruolo limitato. Perché ciò per cui la nostra cultura politica si è battuta, è l’idea della società come sviluppo e ampliamento di libertà e responsabilità consolidate e la convinzione, fondata sull’esperienza, che nelle questioni politiche e sociali le previsioni di lungo termine, pur entusiasmanti e visionarie che siano, raramente hanno successo. La democrazia è quasi sempre criticata dai rivoluzionari per le pecche che mostra in ogni sua manifestazione concreta rispetto alla grande astrazione del puro concetto. La politica reale è piena di aspetti che definire imperfezioni sarebbe generoso. […]

Di fronte ad una società civile si è in presenza di una base su cui poter fare dei miglioramenti. Essa è infatti una società in cui i vari elementi possono esprimersi politicamente, dove esiste un’articolazione a livello politico fra quegli elementi: non un ordine sociale perfetto, che in ogni caso è inattingibile, ma una società che ascolta, che considera e che riforma le ingiustizie. Non è necessariamente democratica, tuttavia ha in sé la possibilità della democrazia. Le previsioni sono comunque difficili. Le culture della legge e della libertà possono anche fiorire, e regioni che ora come ora sembrano non promettere nulla possono entro un certo periodo portare alle loro popolazioni non solo le forme ma anche le abitudini stesse della consensualità. Speriamo. L’istinto umano dimostra sempre una tendenza a conservare almeno una dimensione di autonomia personale da un lato e a formare rapporti comunitari dall’altro. Sono questi ultimi che tendono a sfuggire. Formare un raggruppamento nazionale o qualcosa di simile senza essere privati delle libertà e senza generare astio nei confronti di altri raggruppamenti analoghi: questo è il problema che il mondo ha davanti. Per affrontarlo, abbiamo bisogno di riflessioni caute, di interpretazioni equilibrate, di menti aperte ma non servili. E questo è anche il motivo per cui dobbiamo essere cauti nel firmare trattati internazionali e approvare tribunali internazionali che piacciono a un certo idealismo internazionalista, il quale deve essere promosso con cautela. […]

Robert Conquest

Traduzione di Monica Levy, 4 marzo 2005.

Nel 1968 Robert Conquest anticipò ne Il Grande Terrore (Rizzoli) la fine del regime sovietico. Crollato il comunismo, secondo lo storico inglese la società liberale continua ad essere minacciata dai falsi miti che hanno prodotto guerre e totalitarismi. Oggi Conquest ritiene che il pericolo sia rappresentato da un’ideologia che venera acriticamente ONU e Unione Europea, professa l’anti-americanismo e sottovaluta la minaccia islamica.

ELEZIONI IN IRAQ

Lo scorso 30 gennaio si sono svolte le prime libere elezioni in Iraq.

Dall’elezione nascerà l’Assemblea nazio-nale provvisoria con 275 membri.

L’Assemblea nominerà un nuovo governo ed avrà poteri legislativi; avrà un presidente e due vice.

Entro il 15 agosto dovrà essere preparata una bozza di Costituzione poi sottoposta a referendum nell’ottobre 2005.

Se la Costituzione sarà approvata, nuove elezioni. Data prevista: dicembre 2005.

FONTI E APPROFONDIMENTI
Le imprese industriali nel processo di sviluppo (1953-1975) di Giovanni Bruno, in “Storia dell’Italia repubblicana”, Vol. II - Tomo primo, Torino, Einaudi, 1994
Amministrazione pubblica e partiti di fronte alla politica industriale di Mariuccia Salvati, in “Storia dell’Italia repubblicana”, Vol. I
Valerio Castronovo, Storia economica d’Italia, Torino, Einaudi, 1995
Per l’attualità, http://www.corriere.it/Primo_Piano/Documento/2005/03_Marzo/03/030305_conquest.shtml

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